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Titolo: Il dono degli uomini
Autore: Paola B. Cartoceti
Serie: J.R.R. Tolkien's The Lord of the rings
Parti: 1
Status: Concluso
Archivio: SLC, SoldierBlue Creations
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Il dono degli uomini

Paola B. Cartoceti

Il Dono degli Uomini... così lo chiamavano gli Elfi, quando gli Uomini anticamente vivevano in armonia con loro e la terra e i Valar e tutte le altre creature e popoli. Un Uomo poteva invecchiare serenamente, allora, e quando gli anni della sua vita erano vissuti completamente, poteva egli stesso scegliere il momento di morire in pace. Ma poi venne la Caduta, e Númenor sparve sotto il mare, come egli aveva sognato infinite volte, e pochi Uomini, in quei tempi di guerra, riuscivano anche solo a giungere a tarda età per mettere alla prova quell'abilità antica.
Tali erano i pensieri di Faramir mentre camminava in silenzio sull'erba dell'Ithilien fra gli alberi; pensieri inadatti a un giovane le cui occupazioni non avrebbero dovuto includere la sorveglianza dei confini del suo paese sotto l'ombra di Mordor. I suoi sensi addestrati esploravano automaticamente i dintorni, tesi a cogliere qualsiasi suono insolito, qualunque traccia di stranieri; ma la sua mente indugiava con dolore sull'oscurità che lo aveva colmato soltanto alcuni giorni prima. La morte non era stata un dono per Boromir - perché Boromir era morto, suo fratello non ne dubitava. La lontana eco del corno dal Nord, la visione, il recupero dei frammenti del corno... Faramir poteva sentire nelle ossa e nelle viscere la sua assenza dal mondo, e dovunque fosse andato il suo spirito, era ormai irraggiungibile. Sì, Boromir era morto, suo fratello non sapeva come, ma era morto nel fiore degli anni, con tutto il futuro aperto davanti a sé, tutta una vita da vivere nelle sue gioie... E Faramir era ancora vivo, e non si era mai sentito così sperduto in tutta la sua vita, neppure quando aveva pianto sua madre Finduilas con tutta la desolata disperazione di un bambino piccolo, indifferente ai tentativi di Boromir di confortarlo...
Mentre continuava a osservare il paesaggio silenzioso sotto il fioco sole dell'est, si appoggiò contro un albero, le spalle curve sotto il peso del suo dolore. Si guardò intorno e si rese conto che nella sua fantasticheria aveva vagato lontano dai compagni raminghi. Strinse più forte l'arco e socchiuse gli occhi. Scorse le figure dei suoi uomini fra gli alberi - soltanto lui o un altro ramingo dell'Ithilien avrebbe potuto distinguere i verdi e i marroni dei loro vestiti dalle ombre mutevoli dei boschi. D'un tratto udì un rumore, e non era uno dei suoi, o una creatura del sottobosco. Faramir non palesò il suo allarme. Girò intorno lo sguardo da sotto il cappuccio ma non vide niente. Continuò a camminare, perché in quel modo avrebbe costituito un bersaglio più difficile. Spostò l'arco nella mano sinistra e la destra cadde verso la fibbia della cintura. Finse di regolarla, ma mantenne la mano vicino all'elsa della spada.
Forse si era allontanato troppo, ma aveva troppa esperienza per cadere in una trappola. Si accorse dell'attacco un istante prima che accadesse. La figura balzò fuori dal bosco con la spada alzata e si scagliò contro di lui, ma tagliò soltanto l'aria vuota. Faramir si era abbassato per gettarsi contro le ginocchia dell'aggressore, estraendo la spada e urlando «Allarme!» Se c'erano altri guerrieri fra gli alberi, avrebbero potuto attaccare i suoi uomini... Il nemico cadde all'indietro, ma rotolò via da lui in fretta - un guerriero impetuoso, ma rapido e non inesperto, un uomo di Harad, abbigliato in vesti marroni e rossastre e munito di una crudele spada curva. Faramir gli si lanciò addosso per disarmarlo e gli afferrò la mano sinistra in cui teneva un sottile pugnale dalla lama serpeggiante; il guerriero Sudrone dalla maschera nera era in una posizione sfavorevole per colpirlo, ma riuscì a sbattere l'elsa della spada verso il volto di Faramir. Questi scattò indietro, evitando il colpo, e la lotta impari ebbe fine. L'alto Uomo di Gondor bloccò l'elsa con l'altra mano e intrappolò l'aggressore con il suo peso. «Non ti muovere,» sibilò. Gli occhi scuri sotto i suoi arsero di una fiamma velenosa.
Passi alle sue spalle, e Faramir vide brevemente Mablung e Damrod e gli altri correre veloci in suo aiuto, e Manathor, cugino di suo padre, che copriva loro le spalle. «Capitano Faramir, che è successo?»
«Occhi aperti,» rispose Faramir, mentre i suoi uomini gli toglievano dalle mani il guerriero. «Devono essercene altri.» Si alzò in fretta, pronto a difendersi da un altro attacco, ma la foresta intorno a lui risuonava solo di fruscii e cinguettii e del respiro pesante del prigioniero.
«Credo che fosse solo,» disse Manathor dagli occhi acuti. «Per quale motivo, non so dirlo.»
«Dobbiamo ucciderlo,» disse Damrod. «Deve essere una spia.»
Faramir guardò il guerriero, ora tenuto stretto da due dei raminghi. «È probabile,» rispose con fatica. Uccidere era già abbastanza brutto, ma il genere di morte inflitta da lui e dai suoi uomini, a sangue freddo e a tradimento, era particolarmente amara nel suo cuore. «Ma prima, voglio vederlo in faccia.» Non desiderava risparmiarsi quel dolore. Non voleva continuare a combattere con la sicurezza che i suoi nemici erano sgherri insensibili del Signore Oscuro. Voleva essere consapevole di che cosa avrebbe portato via togliendo la vita a quell'uomo. Era soltanto giusto prendere su di sé una parte del dolore che avrebbe inflitto.
Fece un passo verso il prigioniero che continuava a dibattersi. Tese una mano, afferrò il turbante e lo strappò via insieme al panno nero che copriva la faccia dell'uomo.
Soltanto, non era un uomo. Era una donna, e non solo, quando la riconobbero, malgrado i capelli spettinati e la faccia sporca, tutti gli uomini della compagnia la fissarono sbalorditi e sgomenti, e a Faramir parve che qualcosa si fosse schiantato duramente contro il suo petto. Tale fu la loro sorpresa che in uno scatto selvaggio la donna si liberò dalle mani dei suoi due catturatori sconvolti e con un ringhio si scagliò su Faramir, colpendolo in faccia con un pugno e buttandolo a terra per la sorpresa, con tutta la forza della sua collera e del suo dolore. Ci vollero non due ma quattro uomini e Faramir stesso che lottava con tutte le sue forze per impedirle di stringere le mani sulla sua gola e trascinarla via.
Ancora stordito, Faramir si tirò in piedi, asciugando il sangue dalla corta barba con il dorso della mano guantata. Attorno, gli uomini fissavano la scena con occhi spalancati e alcuni sembravano sul punto di cadere in ginocchio. Parn, che era molto giovane, aveva gli occhi pieni di lacrime. Il dolore e la confusione erano in tutti i loro cuori, e in quello di Faramir infuriava una tempesta ancora più selvaggia.
Il Capitano di Gondor camminò verso la donna che lottava, trattenuta dai raminghi come uno potrebbe provare a trattenere la folgore del cielo. Si fermò davanti a lei e contemplò il suo bel volto, segnato dal dolore e dalle difficoltà di un viaggio attraverso la terra selvaggia. Osservò i suoi abiti dell'Harad, le sue armi letali appoggiate a terra, il leggero fagotto sulle spalle. Incurante della stranezza del gesto, e pregando i Valar che ci fosse un'altra spiegazione al di là di un piano particolarmente crudele del Nemico, le si inchinò profondamente, poi si raddrizzò. Con voce sommessa, chiese: «Che cosa conduce la Dama Morwen di Dol Amroth in questo luogo, e in codesta guisa? E quale follia ti ha colto, signora, da voler cercare di uccidermi?»
E mentre parlava immaginò la risposta, e si rattristò e disperò di vedere mai la conclusione della guerra con Mordor, se simili mali abitavano nei cuori di coloro che avrebbero dovuto resistere con forza al Nemico. Dama Morwen non rispose, ma si contorse e soffiò come un gatto, cercando di nuovo di liberarsi.
Tristemente, Faramir fece un cenno ai suoi uomini. «Legatela,» disse. «Non possiamo rimanere qui. La porteremo a Henneth Annûn.»

***

Quella sera, gli uomini sedevano nelle caverne dietro la cascata tremolante che luccicava del rosso del tramonto, mangiando in silenzio la selvaggina presa mentre ritornavano. Le sentinelle scrutavano la notte con turbamento. L'aria era pesante di domande, e Faramir, dopo aver controllato che tutto fosse in ordine, decise di cercare le risposte.
Dama Morwen sedeva in un angolo di una caverna appartata, le mani legate dietro la schiena e incatenate a un anello di ferro fissato saldamente nella parete di roccia. Giaceva mezza sdraiata con la testa su una roccia bassa, stanca e svuotata. Aveva fallito; e ora non c'erano più certezze nel suo cuore, poiché non aveva compiuto la sua missione e non aveva considerato la possibilità di vedere un altro tramonto. Sperava che il capitano Faramir decidesse di applicarle una giustizia rapida; ma no, era troppo nobile e generoso, pensò amaramente. L'avrebbe rimandata a suo padre, forse riuscendo persino a trovare un modo per mettere a tacere l'accaduto. E Morwen non sapeva quando avrebbe avuto un'altra occasione di compiere ciò per cui era venuta. La guerra sarebbe intervenuta, forse le avrebbe persino sottratto la preda; e la sua brama di vendetta sembrava essersi spenta del tutto quel pomeriggio nel suo primo e unico tentativo di attentare alla vita del capitano Faramir. Ora giaceva sfinita e a malapena capace di tenere lontani quei demoni che aveva sperato di uccidere insieme a lui.
Sentì i passi e alzò la testa. Il figlio di Denethor - quale crudele ironia che queste parole potessero ancora essere riferite a un uomo vivente! - entrò piano, guardandola con un cipiglio triste sul viso. Il suo viso... Morwen cercò di distogliere gli occhi, perché quello sguardo le era insopportabilmente doloroso, ma allo stesso tempo voleva costringerlo a guardarla, per sfidarlo con il suo odio.
Faramir si fermò e abbassò lo sguardo su di lei, le braccia lungo i fianchi. «La tua perdita non è anche la mia perdita, signora?» chiese in un bisbiglio. «Cerchi vendetta su di me per il peccato di essere ancora vivo?»
Morwen digrignò i denti fino a farli scricchiolare. «Non parlarmi di perdita!» ringhiò. «Tu, dovevi andarci tu, a Imladris, all'inseguimento di quei tuoi folli sogni. La Spada che fu rotta, il Flagello di Isildur, il Mezzuomo... Perché non sei andato tu stesso in caccia di leggende? Perché lo hai lasciato andare da solo?» La sua voce si spezzò.
Faramir scosse la testa. «Boromir non avrebbe permesso a nessuno di partire al suo posto... e meno che mai a me.»
Morwen sogghignò. «Ti credo. Probabilmente pensò che ti saresti reso ridicolo!» Si odiava per quello che stava facendo, perché non trovava conforto al dolore che la divorava nel dolore che stava causando a lui.
Faramir chiuse gli occhi e distolse il viso, rivolgendole la lama dura del suo profilo. I capelli gli ricaddero sulla guancia, sulla fronte aggrottata, e quel semplice gesto la trafisse come una lancia uncinata. Poi egli si girò di nuovo, e di nuovo il viso era il suo, l'ovale regolare e la bocca morbida di Finduilas, così come Morwen conosceva la moglie di Denethor dal ritratto nel salone a Minas Tirith, e quello sguardo fragile che non era mai stato di Boromir.
«Credevo che tu sapessi com'era mio fratello» disse semplicemente, senza animosità. «Tu eri una delle tre persone viventi che lo conoscevano meglio. Non mi lasciò andare a Imladris perché le mie parole lo infiammarono per qualche motivo che non so neppure immaginare. Era come se una forza insopprimibile lo trascinasse. E mi proibì anche solo di pensare di andare al suo posto. Non mi confessò la sua ossessione, forse non ne era neppure consapevole, ma mi proibì di andare dicendo che mi amava troppo per mandarmi incontro a un tale cieco pericolo...»
«Ti amava?» sputò violentemente Morwen, cercando di afferrare un brandello dell'odio che l'aveva sostenuta. «Sì, e probabilmente era l'unica persona in tutta la Terra di Mezzo che ti amava! Lo hai visto... lo hai sentito, tuo padre. Egli riteneva che tu fossi sacrificabile.»
L'espressione sulla faccia di Faramir era insostenibile. «E aveva ragione, immagino. Signora, vorrei essere morto al posto di Boromir con tutta l'anima. Darei la mia vita in un battito del cuore, mi condannerei alla più orribile delle morti, se così mio fratello potesse vivere ancora. Questo non ti conforta?»
Per tutto il tempo Morwen aveva combattuto le lacrime, e in quel momento le si riversarono per le guance, e non poteva asciugarle con le mani legate. Poiché il suo cuore diede un balzo al pensiero di un tale accordo con i Valar, e poi ricadde nella disperazione. Boromir sarebbe stato devastato se il destino fosse andato diversamente. Aveva davvero amato il suo fratellino come una parte di sé, il ragazzo timido che si dileguava in tutta fretta quando ella era nei paraggi e che si apriva in un sorriso soltanto quando Boromir gli prometteva di insegnargli qualcosa nell'arte della caccia e della sopravvivenza nelle terre selvagge; il giovane cortese che le si inchinava nei corridoi del palazzo quando ella veniva in visita; il guerriero riluttante che aveva messo da parte i suoi libri e preso la spada e l'arco per difendere il suo paese e si addestrava tutto il giorno nel cortile fino ai limiti della sua resistenza - pressoché ignorato da lei che sempre più era presa da altri interessi mentre cresceva e capiva con gioia che la ragion di stato l'avrebbe condotta verso la realizzazione dei sogni di tutta la sua giovane vita.
«No, non mi conforta, nobile Faramir,» ribatté brusca, controllando i tremiti nella voce. «Nulla può confortarmi, quando penso che ci saremmo sposati questa primavera, una volta che fosse tornato dal suo viaggio. Ma non è mai tornato!» Ingoiò un singhiozzo.
La voce di Faramir era tormentata come la sua. «Ma non è stata colpa mia, signora, se non è tornato,» la supplicò. «Anche se ancora non sappiamo come, è stato il Nemico a compiere il suo destino.»
Morwen indurì lo sguardo e la voce. La conversazione la stava distruggendo, per il dolore che evocava, per la confusione che seminava nella sua mente. «Come hai detto, nobile Faramir, sei ancora vivo,» disse. «La tua presenza è dolorosa per me. Ti prego di andartene.»
Faramir raddrizzò le spalle e anche il suo sguardo si fece più freddo. «Molto bene, mia signora,» disse. «Non posso riportarti a Minas Tirith. Stiamo andando verso Sud, e non interromperemo la nostra perlustrazione. Ti lascerò a Pelargir, e là troverai una scorta che ti riporti da tuo padre.» Si congedò con un cenno del capo, poi si girò e lasciò la caverna.
Morwen ricadde contro la roccia, più sfinita e svuotata che mai.

***

Camminarono per tutto il giorno seguente, lungo l'Anduin per un tratto e oltre Osgiliath, prima di cominciare a fiancheggiare l'Emyn Arnen, pericolosamente vicini ai piedi degli Ephel Dúath, diretti all'Ithilien del Sud. Portarono Morwen con loro, le mani ancora legate dietro la schiena e una corda attorno alla caviglia. Consapevoli delle sue necessità, le slegavano le mani sotto la minaccia della spada quando erano costretti a concederle qualche momento lontana dai loro sguardi. Ma era come se la lotta l'avesse abbandonata.
Non avevano trovato traccia di nemici per tutto il giorno, quando si fermarono accanto a un piccolo torrente e montarono il campo con la massima cura, perché di notte l'Occhio si faceva più pericoloso e i loro nemici più audaci. Accesero un piccolo fuoco, pur sapendo che poteva tenere lontani alcuni dei loro nemici e attirarne altri. Non sentivano parlare dei Nazgûl da settimane, da quando avevano saputo che si erano mossi verso Nord sui loro disgraziati cavalli. Ma le colline venivano spesso percorse dagli Orchi, e quelli non si facevano spaventare dal fuoco.
Manathor e Faramir, in piedi su una sporgenza rocciosa, guardavano in lontananza mentre le sentinelle prendevano posto per i turni di notte e gli altri si disponevano al sonno. Faramir si rivolse al suo parente. «Che cosa ti preoccupa? Sei stato inquieto tutto il giorno.»
Manathor alzò lo sguardo all'aria scura. «Qualcosa di orrendo è su di noi,» rispose cupo. Si girò verso l'unico posto che i loro sguardi cercavano sempre di evitare, la striscia di fuoco eterno sull'orizzonte orientale fra i picchi dentellati degli Ephel Dúath, il rosso incandescente di Mordor. «Non so dire cosa sia.»
«Staremo pronti a tutto,» rispose Faramir.
«Dover proteggere la signora è un rischio, lo sai,» disse piano l'uomo più anziano.
«Che cosa avrei dovuto fare?» scattò Faramir. «Tagliarle la gola come voleva fare a me? Non potevamo tornare a Minas Tirith per tanti buoni motivi.»
«Dirigerci verso Pelargir si accorda bene con la nostra missione,» riconobbe Manathor. «Ma dobbiamo pensare a cosa fare di lei nel caso di un attacco.»
«Le restituiamo le armi e la scateniamo sugli Orchi.»
«Di certo stai scherzando, nobile Faramir. Piuttosto si rivolterebbe contro di te.»
«Non penso,» rispose Faramir, ma non ebbe tempo di spiegarsi meglio, perché Parn correva silenziosamente verso di loro nella notte. «Capitano Faramir! Li abbiamo scorti. Mezza lega ad est di qui, vengono verso di noi lungo la valle!»
«Orchi di Mordor, o questa nuova dannata diavoleria di Saruman?»
«Orchi, signore. Non penso che ci abbiano ancora fiutati. Credo che siano anche loro in missione.»
«Verso la Strada di Harad se seguono questo percorso, senza dubbio,» disse Faramir, dirigendosi di nuovo verso l'accampamento. «Portano messaggi del Nemico alla gente di Harad. Sta raccogliendo le sue forze. Temo che tempi bui siano giunti per Gondor e per i Popoli Liberi. Ah, se Rohan potesse resistere, e se potessimo mandar loro aiuto... e se i raminghi di Arnor fossero più forti!» Raggiunse l'accampamento e fece un cenno rapido agli uomini. «Spegnete il fuoco! Riparatevi su quelle colline rocciose e state pronti con le vostre spade e archi. Una compagnia di Orchi si sta avvicinando, e se possiamo impediremo loro di consegnare il loro empio messaggio. Andate!»
Faramir prese personalmente la corda di Morwen e la rimise in piedi. Gli occhi della donna erano lucidi di allarme e di sfida, ma malgrado le sue parole di poco prima Faramir non era ancora pronto a metterle una spada fra le mani. Si arrampicarono rapidamente fra le rocce, ed egli fece attenzione che Morwen non inciampasse e si ferisse con le mani legate, e alla fine le fece segno verso una valletta rocciosa a malapena visibile alla luce della luna. «Non ti muovere,» la avvertì, quindi controllò dove i suoi uomini avevano preso posizione e guardò fuori per vedere che cosa stava accadendo sotto di loro.
La vista lo fece rabbrividire. C'erano almeno duecento Orchi che trottavano neri e rumorosi lungo il sentiero illuminato dalla luna. La sua compagnia di cinquanta uomini forse avrebbe inflitto loro perdite pesanti di giorno e su un terreno conosciuto e avrebbe potuto cavarsela, ma lì Faramir non osò dare l'ordine. E le implicazioni di quella scena erano ancor più terrificanti. Che genere di esercito stava costruendo il Signore Oscuro se poteva permettersi di allontanarne un gruppo così numeroso? A che genere di guerra stava preparandosi?
Raggelato fra le rocce, vide gli Orchi che si fermavano al loro campo. Gli Orchi non erano abili cacciatori; forse avevano sentito l'odore della cenere, ma i raminghi avevano fatti attenzione a bagnarla e a spargerla in mezzo alla terra, e difficilmente i nemici avrebbero compreso che qualcuno era stato là soltanto alcuni minuti prima. E i raminghi erano sottovento, al punto che la puzza ripugnante degli Orchi arrivava perfettamente fino a loro. Faramir fece segno ai suoi uomini di restare nascosti e aspettare che i nemici riprendessero la loro marcia.
Ma così non fu. Sotto gli occhi sconvolti di Faramir, gli Orchi scambiarono alcuni ordini gutturali e un gruppo si staccò dalla compagnia principale e cominciò ad arrampicarsi sulle rocce.
In fretta, Faramir fece segno ai suoi uomini di fare attenzione e indietreggiò nella valletta. Guardò Morwen ancora legata, ma non c'era tempo di liberarla. Si mise un dito sulle labbra, estrasse la spada senza un suono e già le ombre degli Orchi stavano passando fra le rocce.
Faramir giaceva disteso a terra, spada in mano. Rannicchiata nell'oscurità, Morwen osservò le orrende figure muoversi a pochi passi da loro. La puzza la faceva quasi vomitare. Lottò per restare in silenzio. Non le importava di morire. Non avrebbe dovuto importarle neppure se fosse morto Faramir, piuttosto il contrario. Ma quando, dopo quello che parve un tempo lunghissimo, lo vide sollevare la testa, fissare le rocce ora vuote e rialzarsi per uscire, ella quasi gli gridò dietro. Non poteva lasciarla legata lì con gli Orchi in circolazione! Non poteva...
Faramir ritornò quasi immediatamente, ancora diffidente ma più disteso. «Non penso che torneranno,» disse accovacciandosi. «Hanno solo mandato alcuni esploratori sulle rocce per sicurezza, ma hanno proseguito verso il Sud.» Sospirò stancamente. «Eppure non posso forzare la mano al destino. Qui sta succedendo qualcosa, e temo che arrivino altri nemici. Ripartiremo nella piena luce del giorno.»
Allungò le gambe e si appoggiò più comodamente alla parete di roccia. «Cerca di riposare, ora,» disse piano.
«Slegami le mani.»
Faramir la guardò con viso severo. «Non posso.»
Gli occhi di Morwen erano spalancati nello sforzo di guardarlo nella semioscurità. «Siamo tutti nella stessa barca. Non ti fidi di me, capitano Faramir?»
«Dovrei, dopo quello che mi hai fatto?»
Morwen si morse il labbro. La paura degli Orchi e la consapevolezza di essere nelle mani dell'unico uomo che poteva combatterli aveva ulteriormente smorzato il suo odio, anche se non il suo dolore. Chiuse gli occhi. «Ho pianto tuo fratello come ho potuto. Lo piango ancora. Potrei aver fatto un errore nel cercare di calmare il mio dolore sfogandolo su di te.»
Aprì gli occhi, e Faramir la stava ancora guardando. «Ti credo.»
«Davvero?»
«So cosa può fare il dolore. Ho creduto di diventare pazzo.»
«Io sono diventata pazza. Credo di esserlo ancora. Forse hai ragione nel non volermi liberare.»
Faramir sollevò le ginocchia e le abbracciò, appoggiando indietro la testa contro la roccia, lasciando ricadere i capelli via dal viso; un gesto così familiare che il cuore di Morwen si contorse nel dolore. Aveva la gola riarsa, ma non voleva apparire debole chiedendo da bere. Il petto le si sollevò per la sete e l'ansia, e dalle labbra le sfuggì qualcosa che sembrava un sospiro.
Faramir si girò a guardarla. D'un tratto Morwen era consapevole del suo sguardo indagatore e della propria vulnerabilità. Cercò una traccia di odio dentro di sé, cercò altre parole taglienti per ferirlo ancora, ma non trovò niente. Faramir appoggiò una mano a terra e si fece più vicino a lei. «Vuoi che ti porti qualcosa?»
Morwen scosse la testa in fretta. La domanda era innocente, come gli occhi di Faramir, ma il cuore le batteva improvvisamente come se avesse voluto schizzarle via. Cercò di rallentare il respiro. Non desiderava reagire così, non con lui, ma era più forte della sua volontà, e ancora più crudo perché ella era indifesa ed infiammata dal pericolo. Faramir non poteva non notare che stava tremando. Il suo sguardo cadde in modo diverso su di lei. Indossava ancora gli abiti di Harad, che non le donavano, ma ciò non pareva fare alcuna differenza per lei o, incredibilmente, per lui.
Morwen chiuse gli occhi, completamente confusa. Non poteva chiamare aiuto, non con gli Orchi che brulicavano ovunque; ma non voleva neanche. Avrebbe dovuto essere sconvolta al pensiero di un carceriere che approfitta di una prigioniera legata, ma quello era Faramir e non era tipo da pensarci neppure... il fatto che potesse effettivamente pensarci, che in effetti a quanto pareva ci stesse pensando, riusciva solo a provocarla. Non voleva che si avvicinasse, eppure bramava che la toccasse. Immaginava un tocco delicato e ardente, anche se aveva sempre pensato a lui come il ghiaccio accanto al fuoco di Boromir. Fremette quando le sue dita le sfiorarono la guancia, e cercò di strisciare indietro, anche se desiderava che continuasse. Era facile immaginare la mano di Boromir, la presenza calda di Boromir al suo fianco, il bacio di Boromir...
Faramir non l'aveva baciata. Aveva perfino allontanato la mano. Quando Morwen aprì gli occhi, egli sedeva di nuovo lontano da lei, anche se ancora la fissava con quegli occhi che erano come quelli di suo fratello e non lo erano.
Ubriaca del pericolo e della morte come di un vino amaro, Morwen lo contemplò e lo trovò desiderabile. «Slegami le mani, Faramir,» ripeté in un respiro.
«Non lo farei comunque,» rispose egli, per la sua sorpresa. Quel veleno inebriante stava agendo anche su di lui, spingendolo a parlare con voce sognante e sospesa, il suo limpido sguardo distante e arcano. «Vorrei baciarti e accarezzarti fino all'alba, mia signora, e non vorrei nulla in cambio. Non vorrei neppure che tu ti muovessi per me.»
Doveva essere un sogno, pensò Morwen, sentendo crescere il tepore dentro di sé. Faramir, che parlava così? «Ma io vorrei abbracciarti,» gli rispose. «Inoltre,» aggiunse, con la logica dei sogni, «mi farebbero male le mani.»
«È per questo che non lo faccio,» concluse Faramir, «anche se ti ho amato, signora di Dol Amroth, dalla prima volta in cui posi il mio sguardo su di te e litigammo per un orso di pezza fino a che le nostre balie non furono costrette a separarci a forza.»
Morwen sentì freddo, poi caldo, poi rise ad alta voce e si costrinse al silenzio, o gli uomini di Faramir sarebbero rimasti davvero perplessi. Infine i suoi occhi si colmarono di lacrime. «Perché non me lo hai mai detto? Perché me lo dici ora?»
«Perché non ce n'era bisogno, dato che hai sempre preferito mio fratello, come tutti,» rispose egli, con semplice dignità e sincerità priva di autocommiserazione. «E ora... ora un'ombra è su di noi, e le vite degli Uomini sono diventate brevi...»
Morwen soffocò a malapena un singhiozzo, ma, con suo crescente sbalordimento, Faramir non si trattenne. Piegò il volto sulle mani e cominciò a piangere come un bambino, fino a premersi i pugni sulla bocca con un lamento acuto di pura disperazione e pena sotto gli occhi stupiti e addolorati di Morwen.
Quello fu sufficiente a far arrivare Manathor di corsa. «Faramir? Stai bene?» Si arrestò fra le rocce e fissò lo sguardo sul suo signore in lacrime, e su Morwen, come se pensasse di trovarla intenta a infilare una lama fra le costole di Faramir.
Faramir si raddrizzò, si passò le mani sul viso e fra i capelli arruffati. Agli occhi di Morwen stava ancora tremando per il bisogno di piangere, ma riuscì ad alzare lo sguardo sul suo luogotenente. «Starò bene, cugino,» disse. Manathor annuì, diede un'ultima occhiata di avvertimento a Morwen e se ne andò di nuovo verso il rifugio che aveva trovato con gli altri. Faramir si controllò, ma appariva così sconvolto che Morwen non riuscì a trattenere le lacrime.
«Faramir...»
Egli sospirò, la guardò, inghiottì a vuoto e si alzò in ginocchio. Cercò qualcosa in cintura ed estrasse il pugnale dalla lama serpentina che apparteneva a Morwen, un manufatto del Sud, e straordinariamente affilato. Morwen non si era accorta che lo portasse addosso. Faramir si mosse verso di lei e con un gesto rapido tagliò i legacci. Morwen a quel punto stava cominciando a singhiozzare, e le braccia le ricaddero lungo i fianchi rigide e indolenzite. Faramir le prese delicatamente le mani e la liberò dai resti delle corde, massaggiandole i polsi. Ella continuava a piangere. Alla fine Faramir l'abbracciò, dando libero sfogo alle lacrime. Si strinsero forte e piansero in ginocchio sul pavimento roccioso, fino a che lo sfinimento e il sonno non li sopraffecero.

***

Quando Morwen si svegliò all'alba, era ancora accovacciata contro Faramir. Aveva il naso chiuso e la bocca impastata e stava morendo di sete. Alzò gli occhi al suo volto, tranquillo nel sonno, e lo fissò per un lungo istante, prima che le venisse in mente che quel volto doveva ricordarle il suo amore perduto. E a quel punto il dolore ritornò, e con esso il senso di colpa, anche se non avevano fatto altro che piangere insieme per Boromir, e scivolò fuori dal suo abbraccio. Ma si sedette contro la roccia e lo contemplò, osservando come i suoi capelli si arricciavano dopo lungo tempo che non venivano pettinati, e come le sue labbra erano lievemente socchiuse, e l'ombra delle ciglia sulla guancia, e sul naso una spruzzata di lentiggini che non aveva mai notato.
Quando Faramir cominciò a riscuotersi, Morwen si alzò prima che aprisse gli occhi e uscì dal riparo fra le rocce, rabbrividendo nell'aria grigia e fredda della mattina. Trovò Manathor a pochi passi, a braccia conserte, intento a guardare con sfida verso Mordor. L'uomo le gettò un'occhiataccia obliqua. Morwen lo raggiunse e osservò cupamente con lui il panorama per un istante. «Il capitano Faramir è un uomo nobile e giusto,» fece notare.
«Certo che lo è,»replicò Manathor con diffidenza.
C'erano altre parole che Morwen avrebbe desiderato dire, ma era difficile, sotto il bagliore minaccioso di Mordor. E in quel momento anche Faramir uscì dalle rocce, li fissò battendo le palpebre, si guardò in giro per controllare tutto fosse in ordine, quindi sbadigliò, si stiracchiò rumorosamente e si allontanò grattandosi la nuca. Morwen si sorprese a sorridere, poi chiuse gli occhi e chiese perdono a un fantasma.

***

«Non possiamo proseguire in questo modo,» disse Faramir. Sedeva a gambe incrociate sull'erba con i suoi uomini più fidati, mentre gli altri facevano la guardia o attendevano intorno. Una mappa era stesa fra loro. «Questo posto brulica di Orchi. E non soltanto quelli, come temo che tutti abbiamo sentito.» Molti annuirono. Morwen sedeva a pochi passi, in silenzio. Non era più legata, ma non le avevano ancora restituito le armi.
«Dobbiamo tornare verso Nord,» disse Mablung. «Abbiamo compiuto la nostra missione... abbiamo provato a esplorare l'Ithilien del Sud e abbiamo scoperto che non è affatto sicuro.»
Faramir sospirò. «Ci vorrebbe un esercito molto più grande per mantenere sicuro questo posto,» disse. «E non possiamo permettersi di spostare uomini dagli altri confini. Dovremo ritirarci a Henneth Annûn e accontentarci di difendere Minas Tirith da quel lato.»
«E la Dama Morwen?» disse Manathor.
«La porteremo a Minas Tirith,» rispose Faramir senza un'occhiata, come se la sua confessione e le sue azioni di quella notte fossero state soltanto un sogno. «Per quel che mi riguarda, l'ho trovata che vagava nei boschi, pazza di dolore per la morte del suo promesso sposo, mio fratello. Con una certa fortuna, riusciremo a rivestirla di indumenti femminili prima di riconsegnarla ai suoi parenti a Minas Tirith. Domande?»
Tutti lo guardarono come se il loro capitano fosse impazzito, ma davvero non c'era altra via. Rivelare che una nobildonna dalla terra del principe Imrahil aveva cercato di uccidere il figlio sopravvissuto del Sovrintendente di Gondor probabilmente non sarebbe stato nocivo alla signora vista la sua condizione di lutto, ma poteva essere nocivo alla diplomazia, in un momento in cui la solidarietà fra i nemici del Signore Oscuro era così importante e così difficile.
«Molto bene,» concluse Faramir, alzandosi. «Andiamocene subito, allora.»
«Queste sono buone notizie,» disse il giovane Parn. «Davvero cominciavo ad inquietarmi qua fuori, non so perché.»

***

Ritornarono molto più lentamente, evitando le bande di Orchi che sembravano essere dappertutto. Al calar della notte, trovarono una fattoria abbandonata e si fermarono per riposarsi. Gli uomini ormai erano estremamente turbati. Faramir stesso era freddo e irritabile, e l'anima tormentata di Morwen trovava un certo conforto nel vilipenderlo ancor una volta nella sua mente. A volte si sentiva respinta dal suo gelo; le mancava il fuoco di Boromir, ma ora era un dolore più pacifico, meno disperato. Piangerlo insieme a suo fratello, trovare in se stessa il perdono, le aveva fatto bene. Con questo, Faramir aveva esaurito la sua utilità nella vita di Morwen, ed ella si sentiva quasi pronta e addirittura ansiosa di tornare da suo padre e dai suoi fratelli e sorelle e cominciare una nuova vita - se la guerra glielo avesse permesso.
La fattoria sembrava abbandonata di recente, anche se non c'erano tracce di violenza. Morwen sperava che la famiglia avesse trovato rifugio a Minas Tirith quando la minaccia degli Orchi si era fatta oppressiva. Camminò per le stanzette, cercando quegli indumenti femminili che a Faramir sembravano un requisito essenziale per un suo rispettabile ritorno a casa. Eppure Boromir aveva sempre apprezzato il suo lato avventuroso. Boromir avrebbe imparato ad amarla molto... Morwen aveva sempre saputo che era più interessato alla guerra che a lei; e che quel matrimonio organizzato da lungo tempo era la risposta ai sogni di Morwen più che a quelli di Boromir; ma egli era stato un uomo buono, affezionato a lei e fiero del suo amore, e avrebbero potuto essere felici.
Sospirò, sentendo più acuta che mai la sua mancanza e costringendosi a proseguire la ricerca, che le dava uno strano conforto. Trovò un vestito color zafferano che più o meno le andava bene, e si cambiò, mantenendo parte dei suoi abiti di Harad sotto di esso, perché chi poteva dire quando sarebbero tornati utili. Trovò perfino un pettine da passarsi nei riccioli intricati.
Tornò nella stanza principale dove gli uomini avevano acceso un fuoco e sedevano a parlare e mangiare cacciagione. Tutti la guardarono, non particolarmente scontenti della vista. L'umore di Faramir migliorò visibilmente. Morwen girò su se stessa, aprendo le braccia, e alcuni risero e batterono le mani. Imbarazzata, ella raccolse di nuovo le gonne e guardò a terra con un piccolo sorriso. «Capitano Faramir,» disse Parn, ricevendo uno sguardo spazientito ma giocoso dal suo signore, «una signora nella nostra compagnia ci sta bene, credi di riuscire a trattenerla dal cercare di ucciderti in modo che...»
Tutti rimasero in silenzio, e tutti i sorrisi svanirono.
Non era ancora un rumore, neanche una sensazione. Era una sottile cambiamento nell'aria, e tutti alzarono lo sguardo per qualche ragione, anche se la notte era perfettamente immobile e sopra di loro avrebbero dovuto esserci solo stelle al di sopra del tetto.
Poi cominciarono a sentirlo. Era lontano, fioco, come il battito di un cuore. Lento, costante, sempre più forte. Un ramingo ansimò. Un altro, un omaccione grande e grosso, emise un gemito. Era un suono che non si era mai sentito in quel luogo, che loro non avevano mai sentito, e li riempì di terrore. Ora era più nitido, più vicino.
Woop
Woop
Woop
Qualcosa si stava avvicinando. Qualcosa le cui ali battevano dure e nere contro la notte. Per caso, proprio in quel momento un ciocco sul fuoco rotolò via con un tonfo in una pioggia di scintille. Faramir trasalì. Le fiamme calarono. Il Capitano di Gondor balzò in piedi per attizzarle.
Un urlo riempì l'aria sopra di loro, dentro la piccola casa, nel loro cervello e nel loro ventre. Morwen cominciò a tremare incontrollabilmente e tese una mano verso il tavolo.
L'urlo echeggiò di nuovo, come se la cosa, qualunque essa fosse, fosse stata nella stanza con loro. Un uomo emise un grido e cadde in ginocchio. Altri si gettarono ciecamente sul pavimento.
Faramir si spinse via con uno sforzo dal camino e verso la porta. Morwen comprese cosa stava per fare. «Faramir, no!» gridò. Ma il volto del capitano era deciso, la mano sull'elsa della spada. La estrasse e spinse la porta.
Piegata sul tavolo, lottando per non svenire, Morwen vide solo la reazione sul suo viso. Gli occhi dilatati dall'orrore, i denti che gli battevano nello sforzo di trattenere un grido, le dita aggrappate allo stipite. La mano che teneva la spada aveva quasi allentato la presa, dimenticata. Di nuovo quell'urlo, e la spada gli cadde di mano, e fortunatamente l'eco lacerante dal cielo durò abbastanza a lungo per coprire il rumore, o l'orrore alato certamente avrebbe invertito il suo volo e sarebbe tornato a distruggerli. Le vennero in mente le vecchie leggende di Ancalagon il Nero, e Glaurung, e Smaug, e Morwen crollò sul pavimento, abbracciando la gamba del tavolo. Non un singolo uomo rimaneva ancora in piedi, nessuno tranne Faramir, aggrappato allo stipite con tutte le sue forze e il volto svuotato di ogni vita, tranne gli occhi febbricitanti.
Morwen cercò di strisciare verso di lui. Un uomo gemette, aveva perso i sensi - Parn. Manathor come lei stava lottando per rimanere in ginocchio abbastanza a lungo da raggiungere Faramir. Si trascinarono alla porta, perché qualunque cosa ci fosse là fuori non poteva essere terribile come lasciare il loro capitano a resistere da solo davanti a essa senza neppure osare guardarla. Infine un pugno di uomini e Morwen raggiunsero Faramir e guardarono fuori con lui, stretti intorno a lui. La cosa stava allontanandosi. Videro soltanto le ali enormi che battevano lentamente con quel terribile risucchio, una coda penzolante - forse una figura nera in sella? Scomparve, lontano sopra le colline, verso il Sud.
La mano di Faramir era fredda come il ghiaccio in quella di Morwen. Il capitano si ricompose ed emise un respiro, anche se gli veniva difficile. Accettò il sostegno di Morwen con una breve stretta, poi si spinse via dalla porta e uscì con passo incerto per vedere come stavano i suoi uomini che erano rimasti fuori. Si erano rifugiati sotto i cespugli e le panchine. Alla fine tutti risposero all'appello, anche se molti avevano vomitato e alcuni si fossero sporcati i pantaloni. Parn si vergognava di aver perso i sensi.
Faramir li radunò tutti nella fattoria. «Avete fatto del vostro meglio,» disse, e ancora gli tremava la voce. «Lo abbiamo affrontato. L'ho visto abbastanza da vicino.» Inghiottì a vuoto. «I Nazgûl sono tornati. Ora viaggiano su cavalcature alate, ripugnanti uccelli da preda come i rettili antichi.» Prese fiato. «Ma lo abbiamo affrontato. La loro arma è la paura, ma ora siamo pronti. La prossima volta non saremo tanto spaventati.» Gli uomini apparvero angosciati al pensiero della «prossima volta». Faramir annuì mestamente e batté la mano sulla spalla di Parn. «Sì. È questo che combatteremo d'ora in poi. Ebbene. Lo combatteremo, come abbiamo sempre fatto. Non è vero?»
«Sì.» «Sì, capitano.» «Per Gondor e il mondo libero.» Le loro parole erano frettolose ma sincere, e Morwen improvvisamente comprese qualcosa, qualcosa di così sconvolgente che le ginocchia ancora rifiutarono di sostenerla.
Passarono tutti la notte nella fattoria, rannicchiati insieme, senza trovare sonno fino a che non giunse l'alba, e la luce li fece sentire un poco più sicuri. Morwen si svegliò al fianco di Faramir, avvolta nel suo mantello verde, e prese una decisione.

***

Quella sera costeggiarono di nuovo i fianchi dell'Emyn Arnen. Si fermarono per la notte in un piccolo avamposto. Nel vederli i guardiani furono sopraffatti dalla gioia. Parlarono di immondi spettri e rumori orribili nella notte. A Faramir fu assegnata una stanzetta con l'ingresso rivolto a ovest, il vecchio alloggio del comandante dell'avamposto prima che fosse ucciso dagli Orchi. Mangiarono da basso insieme ai pochi uomini della guarnigione, quindi si prepararono per la notte.
Morwen stava ancora lavando la sua ciotola a un piccolo torrente fuori dalla porta quando Faramir le si avvicinò. Le toccò lievemente la spalla, e quando ella si levò in piedi le rivolse un inchino, rispettoso e distante. «Domani ti lasceremo vicino a Minas Tirith, mia signora,» disse. «Ti darò le tue armi e dimenticherò tutto quello che è successo. Fai un buon sonno, ora. Siamo tutti molto stanchi, e domani il cammino non sarà più facile, anche se la nostra casa è quasi in vista. Buona notte, Dama Morwen.» Si girò e cominciò a salire la scala esterna verso la sua stanza.
«Faramir! Aspetta.» Morwen depose la ciotola di legno, fece scorrere le mani umide e fredde sulle vesti e lo seguì.
In cima alla scala Faramir si girò, teso e cupo, e un piccolo sorriso amaro gli torse un angolo delle labbra. «Spiacente, mia signora, ma sono troppo stanco per un attentato alla mia vita.»
Morwen chiuse gli occhi per la momentanea fitta di dolore e di colpevolezza. «Quale follia,» sussurrò. «A quale stoltezza mi ha spinto il mio lutto. No, mio signore Faramir. Desidero riavere le mie armi ora, e stai sicuro che non le userò contro di te.»
Faramir la guardò e annuì lentamente. «Sì; sarebbe più saggio che tu fossi armata, anche così vicino alla città. Non c'è motivo di tenerti prigioniera, ormai, dato che sei rinsavita; e nel caso di un altro attacco, devi avere i mezzi per difenderti.» Si girò e aprì la porta per entrare e prendere le sue armi.
Morwen fece un passo oltre la soglia della stanza e scosse la testa. «Non voglio le mie armi per difendere me stessa, mio signore. Voglio poter aiutare la tua gente. Voglio combattere per Gondor.» Alzò gli occhi ai suoi. «E per te.»
La fronte di Faramir si aggrottò in un cipiglio più profondo e perplesso. «Per me?»
A quell'ora la luce del tramonto avvolgeva la figura di Morwen in un'incandescenza ardente, il viso immerso nelle ombre. La donna annuì, e avanzò per porgli la mano sulla spalla proprio mentre Faramir alzava una mano e le prendeva gentilmente il gomito, come per allontanarla, ma era troppo tardi. Si baciarono teneramente, meravigliati, poi egli la fece girare lievemente per vederla in viso alla luce del sole. «Questa è davvero follia,» mormorò, fissandola negli occhi. «È mio fratello che desideri, è lui che vedi...»
«Io non so più chi desidero, quando tutto sta crollando attorno a me,» rispose Morwen. «Ma so che vedo l'uomo che la notte scorsa ha resistito sulla soglia di quella fattoria e ha affrontato un terrore ignoto mentre tutti tremavano di paura.»
Faramir sorrise, ora dolcemente, malinconicamente. «Tremavo di paura anch'io... e tutti voi siete stati coraggiosi quanto possibile, tutti i miei uomini e tu con loro. E se Boromir fosse stato lì... lui non si sarebbe limitato a osservare dalla soglia, sarebbe corso fuori con la spada in pugno...»
«E sarebbe morto da eroe,» terminò Morwen. «Come è successo pochi giorni fa.»
«Ancora non lo sappiamo...»
«Sono sicura che sia stato un eroe,» replicò Morwen, con la voce che le mancava, e le lacrime le riempirono gli occhi al pensiero di lui. A quella vista, anche gli occhi di Faramir si offuscarono, e il suo dolore lo travolse di nuovo. Tremando, si tennero abbracciati. «La mia perdita è la tua perdita,» aggiunse gentilmente Morwen. «Io ti aiuterò a sopportarla.»
«Non ho mai neppure osato sognarlo,» disse Faramir in quel momento di avventatezza, «ma tanti pensieri di disperazione hanno attraversato la mia mente da quando mio fratello è morto... pensieri di chiedere la tua mano a tuo padre in suo nome... ma poi mi ritraevo pieno di vergogna, sapendo che sarebbe stato solo il mio desiderio e non la mia lealtà verso Boromir, e che giustamente sarei stato per sempre secondo nei tuoi pensieri, anche se avessi realizzato il mio volere...»
«Tu non sei secondo a nessuno,» rispose Morwen in un alito. «Tu sei vivo, Faramir, vivo! e che i Valar ti conservino a lungo, come si usava dire anticamente in Númenor. E come si faceva in Númenor prima della Caduta, non hai bisogno che mio padre ti conceda la mia mano.»
I loro cuori battevano così forte che Faramir quasi dovette leggere quelle parole sulle sue labbra tremanti. La baciò ancora, poi, prendendole solennemente le mani, le sussurrò una frase in un dolce linguaggio antico, il linguaggio Quenya degli Amici degli Elfi quando il mondo era ancora giovane; e Morwen rispose allo stesso modo.
Le loro ombre si fusero insieme nel riquadro della porta mentre il sole risplendeva di rosso per l'ultima volta sopra le creste più basse dell'Emyn Arnen e del Mindolluin al di là. E poi il bagliore si spense, le ombre caddero velocemente dalle colline e raggiunsero il loro rifugio, e Faramir andò alla porta, tenendo ancora la mano calda di Morwen. Prima di chiuderla contro il freddo della sera, le sorrise con tenerezza nella luce calante, e nel buio che seguì Morwen cercò il suo sorriso con le punte delle dita.
All'esterno, i raminghi dell' Ithilien stabilirono i turni di notte e prepararono i loro giacigli, camminando piano e parlando a voce bassa, attenti a non fare rumore, per non disturbare la pace del Capitano di Gondor e della Signora di Dol Amroth.

***

Finalmente, le rocce di Henneth Annûn apparvero di nuovo davanti a loro. Avevano marciato tutta la mattina ed erano sfiniti. Le acque dell'Anduin avrebbero dovuto brillare sotto la luce del mezzogiorno, ma il cielo era nuvoloso, il sole nascosto.
Si erano fermati brevemente sull'altro lato dell'Emyn Arnen in modo che Faramir potesse spedire messaggeri a Minas Tirith per dire alla famiglia che Morwen stava bene. Quel giorno i due non erano stati vicini molto spesso, con Faramir che teneva d'occhio i suoi uomini stanchi mentre ella camminava in un silenzioso incanto, ma ogni volta che i loro sguardi si incontravano, ogni volta che le loro mani si sfioravano, il loro sorriso avrebbe potuto illuminare persino un giorno più scuro di quello.
«Vorrei poterti portare in un posto più sicuro,» disse Faramir, avvicinandosi a lei. «Vorrei che tu avessi accettato di andare a Minas Tirith... ma ahimè, così vicino sotto l'ombra del Nemico, chi può dire dove sia più sicuro?»
«Io sono al sicuro con te, Faramir,» rispose Morwen con un sorriso. Aveva di nuovo indossato i suoi vestiti maschili per viaggiare, e la sua spada e il pugnale erano appesi alla cintura.
«E tuttavia desidererei che tu non dovessi combattere,» sospirò egli. «Una donna non dovrebbe sopportare questo tormento...»
«Ma tu lo sopporti. E così farò io. Se riusciremo a raggiungere di nuovo l'Ithilien del Sud in numero maggiore, la mia conoscenza di quelle terre vi aiuterà.»
Faramir la guardò fiero, e l'ammirazione nel suo sguardo fu sufficiente a dissipare tutta la stanchezza di Morwen. La donna cominciò a sognare una sera tranquilla nel suo rifugio oltre la cascata...
«Nazgûl!»
Ancor prima che alzassero lo sguardo allarmati udirono il sinistro battito d'ali. Il cuore di Morwen le schizzò in gola. La bestia ripugnante stava avvicinandosi dall'est, e la sua presenza stessa era un affronto all'erba viva e verde e alla bellezza delle acque.
«Oggi non fuggiremo!» gridò Faramir, togliendosi l'arco dalla spalla. «Combattete, uomini! State saldi contro lo spettro alato! Non lasciatelo avvicinare alla città.»
Ora tutti potevano vederlo chiaramente, e la vista suscitò il terrore nei loro cuori, ma resistettero. Tutti avevano in mano gli archi, ora, e scagliarono una grandine di frecce contro di esso, con mira ancora incerta ma con forza indomata. La bestia scese in picchiata verso di loro e si ritrasse di nuovo, poi cominciò a girare per un altro tuffo. L'urlo frantumò i cieli, ma alla luce del giorno gli uomini lo sostennero severamente.
Frustrata, Morwen guardava in alto, agitando la spada inutile. Non aveva un arco, e dubitava che il Nazgûl volesse avvicinarsi a quel nido di vespe - se non per provare a eliminarne alcune. Che fare? Rimanere con loro, pronta a difenderli, o...? Girò intorno lo sguardo frenetico e vide Henneth Annûn, più vicino di quanto probabilmente era. «Vado a cercare aiuto!» chiamò. «Se riusciamo ad abbatterlo, sarà un grave colpo per il Nemico!»
Faramir si girò, la vide mettersi a correre. «No!» gridò disperatamente. «No, Morwen, ci sentiranno comunque, torna qui!»
Morwen udì la voce di Faramir ma continuò a correre. Gettò un'occhiata sopra la spalla e la vista la terrorizzò. La bestia l'aveva notata staccarsi dal gruppo. Un errore, in presenza di un predatore, ed ella avrebbe dovuto saperlo. Era troppo tardi per rimediare. Mentre la bestia le piombava addosso, si gettò fra le rocce. Sentì gli artigli graffiare la pietra. Vacillò per la puzza, assordata dall'urlo, fuori di sé dal terrore, ma illesa. Senza pensare, si rimise in piedi mentre la bestia girava nel cielo, e cominciò di nuovo a correre verso Henneth Annûn, la mente offuscata nell'intenzione assillante di portare aiuto a Faramir.
Qualcosa la colpì con violenza nella schiena. Soltanto un urto, per il momento, senza dolore, eppure improvvisamente Morwen era in ginocchio con le mani per terra, e la grande ombra le passava sopra. Di nuovo l'urlo, ora più straziante. Qualcuno doveva aver colpito la bestia. Morwen sentì il battito luttuoso delle ali farsi più smorzato, ma in realtà tutto stava smorzandosi intorno a lei, luce e suoni. Crollò su un fianco, e la testa le ricadde sul braccio. Li vide correre verso di lei, e Faramir inciampò per la fatica ad alcuni passi da lei e freneticamente strisciò verso di lei, afferrandola, controllando la ferita sulla sua schiena. «È superficiale,» disse, con un sollievo spaventato nella voce. «Ti portiamo a casa, Morwen, siamo vicini, ti cureremo e...» Si interruppe di botto. C'era silenzio intorno a loro. Preoccupata per lui, Morwen girò la testa con difficoltà e lo vide raccogliere da terra l'elsa contorta di un pugnale senza lama.
Sapeva che cosa significava. Lo sapevano tutti, e rimasero in piedi attorno a loro, in silenzio. Morwen sentiva soltanto il respiro pesante di Faramir mentre lasciava cadere l'elsa e la guardava scuotendo la testa, fissandola con occhi sbarrati e irrequieti.
«Athelas,» mormorò. «Svelti. Trovatela, tutti quanti. Ce ne deve essere da queste parti.» Mentre i raminghi si disperdevano intorno, cominciò a raccogliere Morwen fra le braccia. «La porteremo a Henneth Annûn...»
Manathor lasciò cadere una mano pesante sulla sua spalla. «Ci vorrebbe un signore degli Elfi per salvarla, mio capitano,» disse piano.
Morwen era rannicchiata contro il petto di Faramir. Tutto stava facendosi più freddo, ed ella non se ne curava davvero. Accolse il silenzio e l'immobilità. Provò rimpianto al pensiero di aver appena scoperto quanto erano calde le sue braccia, quanto era dolce la sua bocca, ma era stanca, così stanca...
Faramir doveva sapere che cosa stava accadendo. Era stato l'allievo di uno stregone, dopo tutto. Mentre guardava il suo volto cinereo, gli occhi che si facevano vitrei, non ebbe bisogno delle parole di Manathor, l'unico conforto che l'uomo più anziano sapeva offrire. «Si trasformerà in uno spettro,» disse il ramingo. «Non possiamo curarla...»
Faramir scosse più forte la testa. Un «no» soffocato gli sfuggì dalle labbra. Eppure c'era soltanto una cosa che poteva fare per lei, e doveva farla in fretta, se voleva che morisse semplicemente - semplicemente! - lasciando che il suo spirito raggiungesse in pace le aule di Mandos...
La contemplò, e voleva lottare, voleva fare tutto il possibile per mantenerla in vita un poco più a lungo, per sentire il suo tepore fra le braccia, ma sapeva che non c'era speranza, e ogni momento era più pericoloso. Non riusciva a immaginare il suo spirito caldo e intrepido intrappolato nel mondo senza luce e senza colore degli spettri, forse per sempre.
Sorrise fra le lacrime e la disperazione mortale. Le sollevò il viso, sperando che ella potesse ancora vederlo. Vide le sue ciglia palpitare, le labbra curvarsi in un dolce sorriso e formare il suo nome. Delicatamente, le sostenne la testa e le sussurrò parole di promessa e devozione, l'eco delle parole antiche che avevano pronunciato la notte prima, e si chinò a baciarla con tutta la sua tenerezza. E intanto, la mano scese verso la cintura di Morwen ed estrasse la sua affilata lama del Sud.
Morwen non sentì neppure il minuscolo taglio. Sentì solo crescere il freddo, ma non era un freddo mostruoso e alieno, era piuttosto come rincantucciarsi sotto un mantello caldo e aspettare che il sonno e il conforto della vicinanza di un altro dissipassero il gelo della notte. Stranamente, la sua visione si stava restringendo, un anello di oscurità che la ammantava fino a quando tutto quello che poteva vedere era il volto dolce di Faramir, il suo sorriso, i suoi occhi colmi d'amore. E poi lentamente anch'egli svanì, e l'ultima cosa che Morwen sentì, prima che tutto realmente si spegnesse, fu un tocco leggero sulle sue labbra, come gocce di pioggia, le lacrime di Faramir.

***

Manathor rimase in piedi a rispettosa distanza, sconvolto, impotente. Guardò il suo giovane capitano stringere la signora di Dol Amroth fra le braccia fino a che non morì. Guardò la manica di Faramir farsi nera e bagnata del sangue di lei, il corpo di lei abbandonarsi. Era pericoloso rimanere, e gli altri stavano ritornando lentamente, dopo una ricerca senza frutto e inutile, e si fermavano davanti alla scena. Il viso di Faramir era impossibile da guardare. Manathor cercò di avvicinarsi e prendere il corpo, o almeno spingere il capitano ad alzarsi e andarsene, ma Faramir si limitò a curvarsi gelosamente su di lei con un ringhio e rimase là, cullandola e piangendo, i suoi singhiozzi che diventavano grida di disperazione. Manathor chiuse gli occhi e maledisse il Nemico con tutto il suo essere, sapendo che non potevano vincere in alcun modo, non potevano infliggere a Lui lo stesso dolore smisurato e devastante, perfino nella vittoria, perché Egli non era in grado di soffrire come le fragili creature dal cuore caldo. Il ramingo desiderò che ci fosse qualcosa che a loro volta potevano togliere al Signore Oscuro per farlo morire di dolore, ma non lo credeva veramente. Poteva solo rimanere lì e attendere con gli altri, sperando che nessun nemico li sorprendesse, sperando che Faramir non impazzisse di dolore o non cedesse di schianto a un cuore spezzato. Alla fine riuscirono a farlo alzare per trasportare il corpo a Henneth Annûn, anche se egli non permise a nessuno di toccarla, e non si concesse alcun riposo, ricomponendola e vegliandola fino all'alba.

***

La terra non sembrava neanche essere stata disturbata. Faramir aveva rimesso a posto le zolle erbose che aveva tagliato con tanta attenzione prima di scavare la tomba. Era rimasto appena un lievissimo rialzo, neanche poteva definirsi un tumulo. Il corpo di Morwen era stato così leggero nella morte, così fragile, anche se ella era stata alta e forte e bella da viva.
Faramir alzò il viso e rivolse lo sguardo verso l'Anduin. Gli veniva difficile continuare a respirare. Camminò fino alle acque calme della radura che aveva scelto, piena di fiori e alberi verdi. Non c'era il tempo e la possibilità di restituire il suo corpo alla sua famiglia. L'avrebbero pianta più tardi, o così sperava, quando fosse venuta una tregua di qualsiasi genere. Faramir avrebbe avuto tanto da raccontare su di lei, e sperò che sarebbe stato di maggior conforto per loro di quanto lo fosse per lui.
L'acqua del grande fiume gli sfiorò la suola degli stivali sopra i ciottoli. Faramir fissò i cerchi che si allargavano, la corrente più veloce al centro, increspata sotto il sole nascente. «Doveva tornare da te fin dall'inizio?» disse. «Non poteva semplicemente vivere in pace, lontana da te a da me... anche se in questo modo non l'avremmo mai conosciuta? Come mi accoglierà nelle Aule di Mandos, alla fine di tutto... come il fratello che avrei dovuto essere per entrambi voi, come l'uomo che l'ha confortata per un breve momento? Oh, Boromir... la terrai al sicuro, avrete cura l'uno dell'altra?...»
Niente lacrime, non più. Sentì un passo dietro di lui avvicinarsi e fermarsi. Raddrizzò le spalle, poi si girò, con occhi morti.
«Capitano Faramir,» disse Mablung. «Come temevamo, ci sono movimenti dal Sud. Una truppa fresca di Haradrim sta avvicinandosi. Abbiamo visto almeno due mumakîl. Se ci affrettiamo possiamo tendere un'imboscata, e infliggere loro gravi perdite.»
Faramir annuì brevemente. Cominciò a risalire la riva del fiume.
«Non è tutto,» aggiunse Mablung con voce più bassa mentre il capitano si avvicinava. «Gli esploratori hanno avvistato delle creature sconosciute nei boschi. Non siamo ancora riusciti a catturarli, ma stiamo cercandoli. Parn dice che assomigliano a... ai Mezzuomini della leggenda, signore.»
Gli occhi di Faramir si illuminarono brevemente, poi si offuscarono di nuovo. «Molto bene. Staremo a vedere. Andiamo.» Ritornarono verso l'accampamento. Faramir si girò soltanto una volta verso la tomba sotto gli alberi, poi oltrepassò l'altura e scomparve.


Fine







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© Paola B. Cartoceti