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Titolo: Risveglio
Autore: Pellegrino Dormiente
Serie: Marion Zimmer Bradley's Darkover
Parti: 1
Status: Concluso
Note: il racconto faceva parte del gioco di letteratura interattiva The Elvas Project
Archivio: SLC
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Risveglio

Pellegrino Dormiente


Io...
Io penso.
Io penso, allora... esisto? Devo esistere!
Lentamente tornò la percezione di me stesso e con essa la coscienza. Con terrore mi accorsi della vacuità di tale coscienza. Percepivo, è vero. Pensavo, è vero. Ma erano pensieri vuoti, privi di qualcuno a cui rivolgersi. Chi ero? In che condizione mi trovavo? L'angosciante sensazione di non avere un passato né un presente, può portare alla follia un uomo e fu solo grazie ad uno sforzo di volontà, sospinto dalla bruciante curiosità (ero dunque determinato e curioso? O quelle erano caratteristiche nuove date dalla situazione?) di scoprire qualcosa su di me che rimasi saldamente aggrappato allo scoglio della razionalità. Contro tale scoglio si infrangevano come ombre nere le onde cupe del caos che mi circondava: ero un guscio vuoto in balia del nulla.
Poco a poco, almeno la percezione fisica si fece più netta e distinta... perlomeno ora sapevo di avere un corpo e, per quanto potevo capirne, un corpo abbastanza in salute. Mi sentivo debole, ma non malato, come se mi stessi svegliando da un lunghissimo sonno.
Esitai a lungo, perso nei miei pensieri, prima di decidere di aprire gli occhi. Faticavo ad ammetterlo (orgoglio?) ma avevo paura (o ero un codardo?). Paura di aprire gli occhi e scoprire che non c'era nulla attorno a me. Che quelle percezioni erano solo l'eco di un corpo passato. Potevo essere morto e questa, l'assoluta dimenticanza del sé passato e presente, essere la condizione successiva. Eppure ero quasi certo di percepire pesanti coperte sul mio corpo; ero scaldato dal calore trattenuto da esse... non poteva trattarsi di un'illusione! Spalancai gli occhi e mi guardai attorno: giacevo in un letto all'interno di una stanza ordinata e pulita, ma abbastanza spoglia. Un recipiente di terracotta pieno probabilmente d'acqua, una sedia di legno accanto al mio letto, una cassapanca in un angolo, una finestra chiusa dagli scuri attraverso cui filtrava un'intensa luce rossa. Mi resi conto che se potevo identificare quegli oggetti significava che non avevo perso completamente la memoria; sarei stato un ritardato altrimenti. Invece sapevo chiaramente dare un nome e una funzione ad ogni oggetto attorno a me... sapevo dare un nome e uno scopo a tutto tranne che a me stesso.
«C'è nessuno?» Chiesi, scoprendo per la prima volta di poter parlare.
«C'è nessuno?» Quasi gridai qualche tempo dopo vedendo che non ottenevo risultato.
Stavo per alzarmi quando udii uno scalpiccio leggero sul legno del pavimento, la porta si spalancò lasciando entrare una bambina minuta, sui dieci anni, forse meno, che mi guardò con un misto di stupore e felicità.
«Dia duit ar maidin, oilithreach codlatach.»
La guardai stranito. Non comprendevo una sola parola della lingua usata dalla ragazzina. Altri interrogativi si affollavano dunque nella mia mente: avevo dimenticato anche la mia lingua madre? E, se non era così, cosa ci facevo in un luogo dove non parlavano la mia lingua?
«Non ti capisco,» sussurrai; anche la mia interlocutrice sembrò non intendere una sola parola.
«Cad é mar a tá tú?» Chiese di nuovo la bambina. Poi, vedendo che la mia reazione era la stessa, sbuffò indispettita e lasciò la stanza.
Ero sconvolto dall'assurdità della situazione. Dopo qualche attimo, ancora intento a farmi domande a cui non potevo dare risposta, mi sentii improvvisamente debole. Riuscii a malapena a sdraiarmi di nuovo che un sonno profondo mi colse.

***

Passarono tre giorni in cui ogni mattina la bambina, che avevo capito chiamarsi Micaela, veniva pazientemente a istruirmi sulla sua lingua. Scoprii di avere un talento innato e, anche se spesso non sapevo che termine usare, i rudimenti della lingua li avevo appresi. Ma vi erano dei problemi più a monte, più profondi... partendo dal mio stesso nome.
«Tu sei un viandante, non so il tuo nome.»
«Viandante?»
«Sì, uno che cammina molto.»
«Pellegrino,» dissi sovrappensiero nella mia lingua.
«Pellegrino? Non esiste nessuna parola del genere nella nostra lingua.»
«In mia lingua "uno che cammina molto" essere Pellegrino.»
«Un viaggiatore?»
«Non so. Pellegrino.»
«Pellegrino... Va bene. Ti chiamerò così d'ora in poi, anche se per essere uno che cammina molto sei decisamente dormiglione.»
«Dormiglione?» chiesi cercando di ripetere la difficile cadenza della lingua del posto.
«Significa che dorme spesso. Che dorme invece si dice?»
«Dormire... dorm...» coniugare i verbi in quella lingua strana era assai difficile, «... ente! Dormiente uno che dorme.»
«Uhm... dormiente mi piace di più.»
«Allora è deciso,» ridacchiò allegra, «fino a quando non ricorderai il tuo vero nome sarai Pellegrino Dormiente. Così avrei metà nome nella tua lingua e metà nella nostra!»
Esitai in silenzio... "Pellegrino Dormiente," ripetei a me stesso silenziosamente... non aveva alcun senso per me, ma nessun'altra cosa lo aveva perciò lo accettai. Finalmente, seppure buffo, avevo un nome!

***

Scoprii in seguito anche che ero stato ritrovato a pochi passi da quella casa, svenuto sull'erba mentre il sangue copioso fuoriusciva a fiotti da una ferita appena sotto il costato. Quando protestai, facendo notare che non ero ferito in quel momento, la ragazzina mi guardò di sbiego spiegandomi che avevo dormito per più di tre settimane nella loro casa. Ad un esame più attento notai la sottile ma estesa cicatrice che mi attraversava il ventre all'altezza del diaframma.
Mi coricavo ogni notte esausto, seppure non muovessi più di qualche passo all'interno della mia modesta camera: Micaela mi diceva che non ero ancora pronto a conoscere i suoi genitori. Io, non sapendo di me ancora niente più di quanto mi raccontava la mia ospite, obbedivo senza protestare...

***

Altri quattro giorni passarono e io mi sentivo finalmente un po' più in forze e abbastanza padrone della lingua: anche Micaela sebbene fosse una severa maestra e infermiera era soddisfatta dei miei risultati perciò, la mattina del mio ottavo giorno di coscienza, spalancò la porta e annunciò gioiosa:
«Mio caro Pellegrino sei pronto ad affrontare i miei genitori. Poi ci sarà Elvas e infine Darkover...»
«Ho molto da affrontare allora?»
«È vero, è vero, ma non ti lascerò da solo, sei troppo imbranato.»
«Grazie per il complimento, dolce Micaela.»
«È la pura verità,» concluse ridacchiando la ragazzina, precedendomi lungo le scale. Un attimo dopo riapparve sulla soglia.
«Non ti azzardare a calarti sulla testa il cappuccio di quello straccio.»
«Come?» Chiesi perplesso.
«Quell'abito grigio a strati... è pesante abbastanza da proteggerti dal freddo, ma non mettere quel cappuccio, non starebbe bene coprirsi il volto in casa.»
«Il mio saio?» Dissi dovendo ancora una volta ricorrere a una parola nella mia lingua.
«Non ho la più pallida idea di cosa sia un saio... quella è una brutta veste grigia con un cappuccio... ma se tu lo chiami saio,» Micaela aveva una abilità straordinaria nel ripetere le parole della mia lingua, «saio sia...» Sorrise radiosa e corse giù dalle scale.
Indossai rapidamente il saio, o qualunque altra cosa fosse, senza però sollevarne il cappuccio sulla testa come mi era stato chiesto. Mi resi conto in quel momento che non avevo ancora visto il mio volto e che Micaela aveva abilmente evitato le mie domande a riguardo. Che avessi un abito del genere perchè ero deforme? Al tatto il mio viso non rivelava nulla di strano, ma chi poteva saperlo? Scossi la testa cercando di liberarmi da quei pensieri, tanto non potevo fare nulla a riguardo. Feci un profondo respiro e poggiai esitante un piede aldilà dell'uscio... stavo per riscoprire il mondo... e, forse, riscoprire anche me stesso.







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