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Titolo: Gli Dei di Darkover, capitolo 6
Autore: Simona Degli Esposti
Serie: Marion Zimmer Bradely's Darkover
Status: in lavorazione
Archivio: SLC
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Gli Dei di Darkover

Simona Degli Esposti



capitolo 6

L'agguato

Dopo soli due giorni di cammino, passati prevalentemente combattendo contro ripetute tormente di neve, cosa non del tutto eccezionale visto che l'inizio dell'inverno vero e proprio era atteso non prima di una mezza dozzina di settimane, le tre viaggiatrici erano quasi giunte a metà del loro viaggio.
Il Passo dell'Uomo Morto distava pochi chilometri e, dopo il primo difficile tratto che le avrebbe portate ad un altopiano boscoso, avrebbero finalmente incontrato sentieri più praticabili. Ancora poche ore e sarebbero entrate definitivamente nel Domino Perduto degli Aldaran.
Quello era il primo giorno di bel tempo da quando avevano lasciato il rifugio vicino alla Torre Verde. Il cielo era sgombro dalle nubi e la carovana poteva quindi mantenere un buon passo sotto la luce del primo sole invernale. L'atmosfera, rilassatasi durante quelle ultime giornate, sembrava essersi nuovamente raggelata, complice una strana sensazione di pericolo incombente a cui nessuna sembrava dare troppa importanza. In fin dei conti era dall'inizio del viaggio che erano pronte a subire un attacco improvviso.
La prima nota di tensione venne dai cervine. Nonostante l'aria fosse calma, gli animali sembravano fiutare spaventati ogni refolo di vento, come percependo l'odore di un predatore. Anche Ellemir cominciò a sentirsi a disagio, abituatasi alla relativa tranquillità degli ultimi due giorni aveva sentito chiaramente crescere la tensione nelle due Amazzoni, ma non poteva fare nulla per essere d'aiuto. Se non fosse stato per la loro crescente agitazione, non si sarebbe neppure accorta della strana atmosfera che le circondava.
Doveva anche ammettere a se stessa che, da quando avevano lasciato il rifugio, la mattina dopo il suo travestimento, non aveva più parlato molto, come le era stato caldamente consigliato. Aveva anche pensato di farsi spiegare come poteva atteggiarsi in modo da non venire subito scoperta, ma senza grandi risultati e con poca partecipazione da parte delle due donne.
Così aveva cavalcato in silenzio, cercando di memorizzare i modi di dire e gli atteggiamenti che vedeva sia in Taksya che in Grisella. Ma, in quelle ultime ore, il pensiero che più le tornava alla mente era il ricordo dei telepati di Tramontana che, come ricordava tristemente, non erano rimasti molto toccati dalla sua decisione di andarsene. Loro erano ormai al sicuro... mentre lei si stava arrampicando tra ghiacciai e uccelli spettro lungo una delle piste meno battute di quelle montagne, solo per evitare un probabile agguato sulla via principale.
Taksya, ancora poco soddisfatta dalla decisione della compagna di viaggiare su quei sentieri isolati, aveva cominciato ad incupirsi quando aveva notato le tracce lasciate da una compagnia numerosa, restata accampata per giorni in un luogo dove normalmente si cerca di fermarsi per meno tempo possibile. Grisella aveva messo in dubbio le sue preoccupazioni ma, senza accorgersene, aveva cominciato a guardarsi intorno sempre più spesso.
Ellemir non poteva essere di alcun aiuto. Loro erano sicuramente più esperte di lei nel riconoscere un'imboscata. Le sarebbe comunque piaciuto sapere se la via che stavano percorrendo era davvero la più sicura e, in teoria, sarebbero bastati pochi minuti per vagliare le immagini di un futuro così vicino, ma il fatto di dover usare la matrice la frenava.
Dopo gli incubi della terza notte non aveva più avuto problemi con il sopramondo, soprattutto perché aveva evitato in tutti i modi di poterci finire anche casualmente. Ma ora, complice il comportamento delle sue compagne di viaggio, desiderava come non mai di avere la possibilità di scrutare nel suo futuro più prossimo, tanto per prepararsi agli eventi più probabili che sarebbero potuti accadere.
Ellemir continuava a seguire con lo sguardo le mosse di Grisella, che controllava ogni metro di pista come se i nemici potessero nascondersi dietro ogni sasso. Anche Taksya, dopo le ultime scoperte, aveva cominciato a guardarsi intorno con un nervosismo quasi maniacale e la situazione era andata via via peggiorando, specialmente da quando anche gli animali avevano cominciato a mostrarsi irrequieti.
Il passo che dovevano affrontare era effettivamente una zona inquietante. Il sentiero si restringeva fino a lasciare a malapena lo spazio sufficiente per un cavallo e la piccola carovana fu costretta a percorrerlo in fila indiana. A lei venne assegnata la posizione centrale, mentre Grisella apriva la colonna e Taksya, in retrovia, si trascinava dietro i due cervini da carico. Ma, nonostante tutte queste precauzioni, l'agguato le colse di sorpresa.
Avevano appena superato il punto più stretto del passo e stavano già cominciando a rilassarsi, rassicurate dalla convinzione di Grisella sul fatto che le pessimistiche intuizioni di Taksya fossero state provocate dall'eccessiva tensione degli ultimi giorni. Secondo logica, continuava ad asserire Grisella, se davvero qualcuno le stava aspettando, avrebbe di certo approfittato del vantaggio offerto dall'angusto sentiero. I banditi, invece, attaccarono fuori dalla strettoia, quando ormai le tre donne erano certe di aver scampato ogni rischio e la loro attenzione era tutta concentrata sulla difficile discesa che le aspettava.
Era una banda composta da una decina di uomini malvestiti. A prima vista li si sarebbe potuti scambiare per quei disperati che, perso quel poco che avevano, si riunivano in branchi come lupi per derubare i viaggiatori solitari che attraversavano le montagne. Sia Taksya che Grisella ne avevano visti a decine, specialmente in quel periodo dell'anno che preannuncia l'arrivo dell'inverno, pronti ad assalire qualsiasi carovana desse loro un relativo margine di facile guadagno.
Un esame più approfondito, però, rivelava che quella era soltanto una facciata, in realtà tutti gli uomini avevano cavalli robusti e ben curati, armi di buona qualità e, soprattutto, disciplina. Una banda di mercenari bene addestrati, che attaccarono con ordine, seguendo uno schema che evidentemente era loro familiare.
Ellemir, dalla sua posizione arretrata, li vide gettarsi contro Grisella e circondarla. Taksya si portò al suo fianco, urlandole di fuggire, prima di gettarsi in avanti ed essere raggiunta da un paio di banditi che la impegnarono in un feroce duello.
Per un istante Ellemir prese in considerazione l'idea della fuga, poi la scartò decisamente. Se anche fosse riuscita a distanziare i nemici e ad attraversare nuovamente il passo, senza aiuto non avrebbe avuto una sola possibilità di sopravvivenza. Le sue compagne le avevano dimostrato quanto la vita nella Torre l'avesse disabituata al mondo esterno, e gli Hellers d'inverno erano qualcosa che neppure una guida esperta avrebbe affrontato a cuor leggero.
Sfoderò la spada che rendeva tanto realistico il suo travestimento da Amazzone e si gettò contro i banditi che stavano avanzando contro di lei. Naturalmente non aveva la più pallida idea di come affrontarli ma, se doveva morire, l'avrebbe fatto combattendo.
Spronò il cavallo lanciandolo al galoppo. La mossa confuse i suoi assalitori o, meglio, le loro cavalcature che scartarono impennandosi davanti a quel demonio nero e schiumante. Senza neanche rendersene conto, Ellemir si trovò oltre. Davanti a lei, Taksya stava ancora combattendo, anche se il braccio sinistro le ricadeva inerte lungo il fianco e dalla sua mano gocciolava sangue. Spronò ancora il cavallo fino a portarsi alle spalle di uno degli assalitori. Senza pensarci sollevò la spada e la calò, di taglio, sul collo dell'uomo.
La forza impressa a quel colpo fu tale che la testa quasi si staccò dal busto. Ellemir rimase inorridita a guardare il corpo che scivolava lentamente a terra, senza riuscire a far altro che battere i denti.
Approfittando di quell'istante di disorientamento, i due mercenari che prima aveva giocato erano riusciti a riprendere il controllo delle loro cavalcature e stavano per raggiungerla. Avvertendo il pericolo e senza aspettare un suo ordine, il cavallo si slanciò in avanti cercando un varco tra gli avversari. Ellemir strinse le ginocchia e assecondò i suoi movimenti, con l'istintiva naturalezza di una Alton nata e cresciuta ad Armida.
Intorno a lei lo scontro continuava implacabile.
Grisella, che pure era una provetta spadaccina, cadde a terra in un lago di sangue, sopraffatta dai nemici. Taksya resisteva ancora, ma i suoi gesti erano sempre più lenti e impacciati. Ellemir si chiese, con una sorta di stordito distacco, quanto tempo le restasse ancora da vivere.
Aveva paura, era inutile negarlo. Se fosse stata sola, a questo punto, si sarebbe vigliaccamente rifugiata nel sopramondo, aspettando che la fine del suo corpo fisico la sospingesse verso la zona luminosa da cui non si torna. Ma non poteva farlo. Aveva dei doveri verso le donne che la stavano accompagnando.
Come ogni comynara, sapeva di avere la responsabilità di chi era al suo servizio, e questo le imponeva di restare al suo posto condividendo disagi e pericoli. Inoltre, le suggerì una voce interiore, per lei nel sopramondo esistevano gli stessi pericoli che stava già assaporando nella realtà.
Un brusco movimento del cavallo la riscosse dai suoi pensieri. Si accorse con orrore che un mercenario appiedato era riuscito ad avvicinarsi alle sue spalle. Il bandito aveva usato la spada per tagliare i tendini delle zampe posteriori della sua cavalcatura. Cercò di mantenersi in sella, mentre l'animale si inclinava all'indietro, ma due mani rudi la afferrarono per le spalle e la tirarono a terra.
Ellemir provò ad alzare la spada che ancora stringeva nella sinistra, ma l'uomo la bloccò stringendole il polso. L'arma cadde tintinnando sulle rocce ghiacciate, fuori dalla sua portata. Per un istante pensò assurdamente che quella era la prima volta da anni che un uomo la toccava. Lottò per reprimere una risata isterica, non era certo quello il momento di lasciarsi andare a una crisi di nervi.
Un altro bandito si avvicinò trascinando Taksya che scalciava con tutte le forze rimaste. Con uno spintone la gettò a terra, accanto ad Ellemir. Il gesto provocò un contatto fisico tra le due donne, ed Ellemir, che aveva tutte le difese abbassate, si trovò improvvisamente esposta al dolore e alla frustrazione della Rinunciataria.
Si ritrasse istintivamente, senza però riuscire a escludere del tutto le emozioni dell'altra. Una parte del suo cervello, talmente plasmata dal lungo addestramento da non essere distratta dalle circostanze esterne, registrò l'informazione e si chiese se l'intensità di quelle sensazioni non potesse essere la prova definitiva del fatto che Taksya fosse dotata di un laran ereditato da una delle grandi famiglie dei comyn.
L'arrivo del capo dei banditi, che fino ad allora si era tenuto in disparte, la riportò bruscamente al presente.
«Che ne è dell'altra?» chiese ai suoi uomini.
«Morta,» rispose laconicamente uno di essi, indicando con la punta della spada il corpo inerte di Grisella. Ellemir percepì con chiarezza l'ondata di dolore che si levò da Taksya a quell'annuncio.
Il mercenario le osservò perplesso. «Io vedo solo due sporche Amazzoni. Dov'è la maga testarossa?»
Uno degli uomini si avvicinò indicando Ellemir. «Questa avrà anche i calzoni e i capelli corti, ma non sa combattere.»
«Toglile i guanti!» ordinò il capo.
La donna fece per nascondere le mani dietro la schiena, ricordando a se stessa che avrebbe potuto uccidere quell'uomo al primo contatto ma, quando il bandito le affondò con violenza le dita nel braccio e le strappò il guanto destro, Ellemir non reagì.
La mano, bianca e ben curata, apparve ai suoi occhi assurdamente piccola, come quella di una bambina.
«Lo immaginavo,» ghignò il capo, rivolto ai suoi uomini. «Non ha mai stretto una spada o un qualunque arnese da lavoro.» Si rivolse verso Ellemir con una grottesca parodia di inchino. «Allora, vai leronis, finalmente riusciamo ad incontrarci. Non è stato facile, credimi. Ma forse...» aggiunse allungando una mano callosa ad accarezzarle il viso, «forse verrò ricompensato per la mia costanza. Che ne dici?»
L'uomo, memore dell'alone di intoccabilità che circondava le Custodi, mantenne lieve il suo tocco ma, quando si rese conto che quella Custode non avrebbe reagito, trasformò la carezza in una stretta brutale che le strappò un gemito.
«Cosa c'è?» riprese il bandito. «I miei modi sono troppo rudi per una comynara? Scommetto che nessuno ti aveva mai toccato così, fino ad oggi.» Spostò la mano dal volto alla nuca e si avvicinò fin quasi a sfiorarla. «Penso che prima che abbia finito con te griderai di piacere, te lo prometto.»
Ellemir chiuse gli occhi cercando di escludere tutto ciò che la circondava, ma quel semplice esercizio che aveva imparato durante il primo anno di addestramento, adesso le sembrava di una difficoltà insormontabile. Sentiva il fiato caldo dell'uomo, la stretta indecente delle sue dita sul collo così impudicamente scoperto, poteva percepire come una vibrazione tangibile il suo desiderio, la sua fame violenta, il suo bisogno di possederla.
Avrebbe voluto fulminare quel criminale, come Custode era praticamente intoccabile. Ma lei non era più una Custode, non poteva più avvalersi del diritto che le avrebbe concesso di uccidere chiunque l'avesse toccata, cercando di mantenersi pura per il faticoso lavoro della Torre e l'uomo che aveva davanti non poteva sapere tutto questo. Vedeva solo che lei, una Custode a quanto gli avevano detto, lasciava che la sua mano indugiasse sul suo corpo, senza reagire in alcun modo. La cosa lo eccitava e la sua eccitazione spaventava ancora di più Ellemir. Era terrorizzata e, come sempre quando aveva paura, sentiva agitarsi in fondo alla mente qualcosa che la spaventava e, insieme, l'affascinava.
Le avevano insegnato a controllare quell'aspetto del suo donas, ma lei era sempre stata consapevole del potere racchiuso nelle cellule del suo cervello. In quel momento poteva quasi visualizzarlo, come una belva nera e sinuosa che si agitava nervosamente dentro un'invisibile prigione, aspettando solo l'occasione per riacquistare la libertà e colpire.
Il potere racchiuso nel suo donas aveva già assaggiato quel poco di libertà che lei gli aveva concesso dopo il primo incontro con la figura incappucciata. Allora si era limitata a lasciare una profonda cicatrice nel cervello del suo assalitore. Ma ora, dopo aver assaggiato il gusto della vendetta, lo sentiva più potente, pronto a scatenarsi.
La collera degli Alton poteva uccidere, era la prima cosa che sua nonna le aveva insegnato fin da bambina, e lei aveva imparato a controllarsi o, meglio, aveva imparato a controllare sentimenti come la rabbia o il rancore. Ma adesso era diverso. La paura e il ribrezzo stavano facendo vacillare le barriere di autocontrollo costruite con anni di infinita pazienza.
"No!" si impose. "Se dovrà morire sarà per qualcosa che lui ha fatto. Non voglio usare il mio laran per uccidere!"
Si divincolò dalla stretta dell'uomo e, vincendo il disgusto, lo fissò negli occhi.
«Sono una Custode addestrata. Se tieni alla tua vita lasciami stare.»
Il ghigno sulla faccia del bandito si trasformò in una smorfia ironica, Ellemir aveva atteso troppo perché ora lui potesse cedere alle sue minacce.
«Ho smesso di credere alle favole per bambini da molto tempo,» la schernì, osservandola meglio. «Così tu saresti veramente una maga delle Torri? Non sei un pò vecchia per giocare ancora alla verginella consacrata?» Afferrò i lacci della tunica da Amazzone e li tirò con violenza, fino a strappare il tessuto. «Ci penserò io a liberarti da questa spiacevole condizione.»
Ellemir rabbrividì sentendo la belva dentro di lei pronta a saltargli alla gola. Ripeté mentalmente le parole del giuramento di ogni telepate di Darkover, "non userò mai il mio laran per imporre forzatamente un rapporto", e sentì la frustrazione della belva come un sordo ruggito.
«Non abbiate paura, vai leronis. Non può farvi nulla,» le parole di Taksya, che fino a quel momento aveva seguito la scena senza fiatare, risuonarono irridenti. «Non è stato abbastanza uomo da fare da solo il suo sporco lavoro, figuratevi se riuscirà ad esserlo a sufficienza per recarvi offesa.»
Ellemir trattenne il fiato. "In nome di tutti gli dei, cosa è saltato in mente a questa avventata ragazza?" pensò, sempre più spaventata dalle proprie reazioni.
Con uno scatto rabbioso il bandito lasciò cadere il brandello di tunica della Custode e colpì Taksya sulla guancia.
«Hai ancora tanto fiato da ringhiare, maledetta cagna? Ti insegnerò io qual è l'unico posto giusto per una donna!»
La colpì ripetutamente al viso, fino a tramortirla, poi cominciò ad armeggiare con i suoi vestiti.
Ellemir era sconcertata. Taksya aveva deliberatamente attirato l'attenzione su di sé per salvarla, ma la cosa non aveva senso. Sarebbero comunque morte entrambe entro breve tempo. Poi, con un lampo di percezione amplificata, colse l'immagine che l'Amazzone le stava involontariamente trasmettendo, un'immagine in cui lei stessa si toglieva la vita con il pugnale che portava nello stivale.
Taksya le stava offrendo una soluzione facile e dignitosa. Ma a quale prezzo?
La sua mano corse al pugnale, ma il movimento successivo fu verso la gola del bandito che, a meno di un metro da lei, stava ancora spogliando l'Amazzone. Probabilmente il tentativo avrebbe avuto successo se l'uomo fosse stato solo. Ma un altro membro della banda si accorse in tempo di ciò che stava accadendo e intervenne in difesa del capo.
«Niente da dire, vai Domna,» ringhiò il mercenario, distogliendo solo per un istante l'attenzione da Taksya, «sarà un piacere insegnarti l'educazione!» Si rivolse all'uomo che l'aveva disarmata, «Marcus, tienila ferma mentre finisco questo lavoretto!»
Impotente, Ellemir si guardò disperatamente intorno alla ricerca di una soluzione. "È inutile affannarsi," sussurrò una voce conosciuta dentro di lei, la risposta che sua nonna sempre le dava quando da piccola si trovava in un impiccio che le sembrava di non poter risolvere. "Tu puoi mettere fine a tutto questo, se davvero lo vuoi."
Cercò di essere obiettiva. La tentazione di usare il suo Dono era quasi intollerabile, ma doveva esserci un'altra soluzione. «Fermati!» gridò.
Non era la prima volta che usava la Voce del Comando, e sapeva che l'effetto era di breve durata. Doveva approfittare di quei pochi istanti per far ragionare quell'essere spregevole.
«È ferita gravemente. La ucciderai!»
Le parole affondarono nella coscienza del bandito proprio mentre lui riacquistava il dominio su se stesso. Rovesciò la testa all'indietro e rise, una risata lunga e ululante che ad Ellemir ricordò i lupi dei monti Kilghard.
«È tutto qui il tuo potere, strega? Un incantesimo davvero impressionante! In quanto alla tua amica...» Con un'imprecazione oscena si slacciò i pantaloni, incitato a gran voce dagli altri membri della banda.
Ellemir si sentì pervadere da una serenità che non provava più da tempo. "Una Custode deve rispondere solo alla propria coscienza," ricordò. Sorrise e liberò la belva.
Il Dono degli Alton era il rapporto mentale forzato anche con gli atelepati. Possederlo allo stato puro voleva dire poter influire direttamente sul cervello altrui. E questo fu esattamente ciò che fece Ellemir.
Le cellule cerebrali del bandito esplosero, letteralmente, una dopo l'altra, in rapidissima successione. L'uomo lanciò un urlo che aveva ben poco di umano, si portò le mani alla testa e cadde all'indietro scalciando e inarcando la schiena, in preda alle convulsioni. In realtà si trattò di una morte fin troppo rapida e pietosa per i gusti di Ellemir.
L'effetto sul resto della banda, comunque, fu notevole. Marcus, l'uomo che fino a un attimo prima le teneva le braccia bloccate dietro la schiena, la lasciò come se scottasse. Arretrò verso i compagni tracciando nell'aria un antico segno di scongiuro e montò sul primo cavallo che si trovò davanti. Il suo esempio fu contagioso e, dopo pochi istanti, il luogo dell'agguato rimase deserto ad esclusione delle due donne e dei cadaveri.

***

Il silenzio che era calato su di loro pesava dolorosamente. Ellemir si sentiva forte, come mai lo era stata prima. Sentiva di avere in pugno il proprio destino, almeno fino a quando la scarica adrenalinica causata dall'utilizzo dei suoi poteri allo stato puro non si fosse esaurita.
Si guardò intorno. I cadaveri degli uomini uccisi avevano imbrattato di sangue la candida neve del passo, poco distante da loro il corpo di Grisella non faceva eccezione. Ellemir si stupì della freddezza con cui la sua mente registrava la cosa poi, finalmente, riuscì a fare il collegamento che mancava al quadro generale.
Erano nel punto più alto del passo, sopra la linea di demarcazione degli alberi. Il sangue copriva ogni centimetro di terreno lasciato libero dai cadavere, la notte sarebbe presto calata a nascondere quello scempio e, con essa, sarebbero giunti branchi di uccelli spettro affamati, attratti dal forte odore del sangue.
Ellemir ritornò immediatamente in sé. Dovevano andarsene da lì, il più rapidamente possibile. Si avvicinò a Taksya, ancora distesa al suolo, bloccata a terra dal peso dell'uomo che aveva fulminato con il Dono degli Alton. La donna non si muoveva, sembrava non respirare neppure. Per alcuni secondi Ellemir temette che fosse morta poi, dopo un lunghissimo istante di panico, percepì in lei un debole segnale di vita.
Con un notevole sforzo riuscì a liberare Taksya dal peso che rischiava di soffocarla e la trascinò il più lontano possibile dal cadavere del capo dei banditi. Non appena le fu tornato un po' di fiato, estrasse la matrice dall'involucro di seta che la isolava e si concentrò su di essa.
Il braccio sinistro della Rinunciataria era conciato malissimo, dalla ferita era uscita una notevole quantità di sangue, doveva agire immediatamente se voleva salvarla. Incurante dell'ambiente circostante, Ellemir penetrò con la mente all'interno delle strutture cellulari che costituivano l'organismo dell'altra donna. Immediatamente individuò il problema, una delle vene maggiori del braccio era stata recisa di netto ed aveva causato una massiva perdita di sangue.
Fortunatamente nessuna delle arterie sembrava essere stata toccata, era possibile circoscrivere il danno senza troppa fatica. Sempre sperando che il sangue perso non fosse oltre il limite sopportabile dall'organismo dell'Amazzone.
Con l'infinita pazienza di uno scrivano, Ellemir cominciò ad eseguire la riparazione dei tessuti lesionati. I lunghi anni passati come Custode non le avevano fatto dimenticare i trucchi imparati quando aveva ricoperto il semplice ruolo di monitore, quasi vent'anni prima, durante la sua permanenza nella Torre di Neskaya.
Quando il lavoro sembrava ormai concluso, uno dei punti rinsaldati con l'aiuto della matrice tornò a cedere. Il sangue riprese a sgorgare dalla piccola lacerazione, rischiando di distruggere il lavoro compiuto fino a quel momento. Ellemir, in preda alla disperazione, maledì il fatto di essere da sola, senza nessun altro telepate che potesse dargli una mano, senza poter neppure attingere a quel poco di laran che Taksya, ancora svenuta, sembrava possedere.
Non aveva neppure finito di formulare il pensiero che il suo desiderio sembrò essere esaudito. Una strana forma di laran sembrò venirle in aiuto, proveniente da un remoto angolo della mente della donna svenuta.
La sorpresa provocata da quell'aiuto insperato sembrò causare più danni che altro. Poi, afferrando l'energia a piene mani, Ellemir riuscì ad imbrigliare le cellule ribelli e ad imporre loro di mantenere la posizione fino a quando la saldatura provocata dagli agenti del sangue non fosse divenuta definitiva.
Dopo quasi un'ora di lavoro, Ellemir poté tornare alla realtà. Si sentiva sfinita e sapeva che non avrebbe potuto fare molto per ridare al proprio organismo quelle energie spese lavorando con la matrice.
Controllò, con gli ultimi residui di energia, le condizioni generali di Taksya. Il suo sistema circolatorio non sembrava compromesso, il sangue aveva ricominciato a scorrere normalmente e la quantità sembrava non essersi ridotta così tanto da destare immediate preoccupazioni. Certa che non le sarebbe capitato niente altro di male, Ellemir si allontanò da lei, dirigendosi verso la carcassa del suo cavallo.
Cercando di agire il più rapidamente possibile, scaricò dal dorso dell'animale la sacca di provviste che le era stata affidata. Tornò versò Taksya, ancora in stato di incoscienza, e si mise a mangiare. Se non avesse reintegrato le sue energie al più presto avrebbe corso il rischio di lasciarci la vita. Dopo aver rischiato di perderla per mano di quei bastardi mercenari, l'idea di morire per un motivo così stupido non la allettava più di tanto.
Consapevole del fatto che quelle erano le sole provviste che avevano a disposizione, Ellemir cercò di mangiare solo quello che le sembrava più calorico, riducendo al minimo la quantità. Sapeva che per ridarle tutte le energie non sarebbe bastato un pranzo luculliano, ma non poteva fare altrimenti. Era stupido cercare di reintegrare al massimo le energie se questo le avrebbe poi condannate a morire di fame dopo qualche giorno.
Quando si sentì abbastanza in forze, Ellemir tornò a preoccuparsi dell'Amazzone ancora svenuta. La ferita si era perfettamente rimarginata, solo una linea biancastra restava a testimonianza del lavoro della spada degli assalitori. Erano state fortunate che quegli uomini non provenissero dalle Terre Aride, in tal caso ogni operazione di salvezza sarebbe stata resa vana dall'azione del veleno con cui erano soliti impregnare le lame delle loro armi.
Ellemir penetrò con la sua mente nel cervello di Taksya, incuriosita dall'insperato aiuto che le era giunto da parte sua. Voleva scoprire la provenienza del suo laran e poteva agire liberamente solo in quel momento, approfittando dello stato di incoscienza della donna. Sapeva che era un'azione illegale, ma anche l'aver usato il suo potere contro il capo dei mercenari andava contro ogni regola. Questo non la giustificava, ma le dava la sfrontatezza di tentare un contatto con la parte più profonda della mente di Taksya.
La guida sembrò accorgersi della sua manovra, ponendo una debole resistenza al contatto, ma Ellemir cercò di forzarla, penetrando più a fondo con la sua ricerca. Aveva riconosciuto nel laran di Taksya, che inconsciamente l'aveva supportata durante l'intervento ricostruttivo, la stessa origine di quello che le era venuto in soccorso quando si era trovata incagliata tra il mondo reale e il sopramondo senza un'apparente possibilità di fuga.
Ellemir temeva anche che, a causa del contatto che si era instaurato nei pochi minuti precedenti all'esplosione del suo donas, Taksya fosse rimasta colpita dall'energia liberata per uccidere l'uomo che la minacciava. Era una condizione rara, le loro due menti avrebbero dovuto essere parzialmente sintonizzate durante l'azione ma, vista la situazione, era un'eventualità da non scartare.
Con sollievo non trovò danni, però non riuscì a localizzare l'origine del potere di Taksya. Era come se, nella parte più profonda della sua mente, vi fosse un muro ben fortificato, costruito in modo da tenere bloccato il più possibile il laran della giovane donna. Ellemir si ricordò di aver già notato questa stranezza durante il primo colloquio avuto con l'Amazzone, ma solo ora si rese conto dell'origine di quella barriera.
Non era stata creata da Taksya, come aveva creduto in principio, ma dall'azione di una terza persona che aveva, volontariamente o meno, circondato tutti i centri del laran della giovane, lasciando libero, ma solo in parte, quel settore predisposto allo sviluppo della telepatia, il talento più comune tra i dotati di laran.
Taksya doveva essere inconsciamente consapevole delle proprie capacità di telepate e, come spesso e volentieri aveva notato anche Ellemir, tendeva a costruire una seconda barriera di supporto, in modo da impedire il passaggio di qualsiasi pensiero.
"Come se fosse abituata a farlo da sempre," pensò stordita Ellemir, "ma perché?"
La debolezza la costrinse a recidere il contatto. Taksya si stava lentamente riprendendo ed Ellemir non aveva riacquistato abbastanza energia per imporre un contatto mentale forzato, neppure ad una telepate senza addestramento come lei.
«Cosa è successo?» mormorò Taksya, portandosi istintivamente una mano al braccio ferito.
«Siamo salve,» rispose semplicemente Ellemir. «Sono scappati.» Lo sguardo incredulo dell'Amazzone valeva più di mille domande. «Sono riuscita ad uccidere il loro capo,» spiegò allora, trascurando di informarla su come vi era riuscita. «Erano tutti talmente impegnati ad incitarlo che non si sono accorti di quello che facevo. Quando lo hanno visto cadere a terra sono scappati come lepri.»
Taksya era già svenuta quando Ellemir aveva tentato la sua azione con il coltello, non aveva quindi modo di dubitare delle sue parole. Anche per dei mercenari perfettamente addestrati, la paura ancestrale del potere di una leroni era difficile da eliminare. Le sbruffonate del loro capo non erano di certo bastate per cancellare secoli di leggende.
L'Amazzone cercò di alzarsi, puntellandosi sul braccio sano, ma la testa prese a girarle vorticosamente e fu costretta a sdraiarsi di nuovo. «Il mio braccio?» chiese, alzando quello che ricordava ferito.
«Non potevo lasciare che morissi dissanguata,» quella di Ellemir sembrava quasi una richiesta di giustificazione, «ho semplicemente utilizzato la matrice per chiudere la ferita.»
Taksya fissò perplessa il punto indicato da Ellemir. Sentiva ancora i muscoli intorpiditi, ma doveva ammettere che del profondo taglio non vi era più traccia. «Vi devo la vita,» disse seriamente.
«Avresti fatto lo stesso, magistra,» cercò di sdrammatizzare Ellemir, impaurita dal tono solenne che era comparso nella voce dell'Amazzone.
«C'è una vita tra noi,» continuò Taksya con voce meno ferma. «Da questo momento mi avrete sempre al vostro fianco. Proteggerò la vostra vita fino a quando durerà quella che mi avete concesso di continuare a vivere.»
Ellemir la fissò con occhi sgranati. Se loro fossero stati uomini, quello che Taksya aveva appena pronunciato sarebbe stato il giuramento di uno scudiero verso il proprio signore. Ma Taksya era una Rinunciataria e poteva prestare giuramenti del genere nei confronti di chi più voleva e, su Darkover, nessun giuramento poteva essere infranto a cuor leggero. Solo in alcuni casi c'era la possibilità di venire dispensati dal mantenerlo, come era accaduto per quello che lei aveva prestato come Custode, e la Rinunciataria stava consegnando a lei la propria vita, legando indissolubilmente i loro due destini, prestando il giuramento nelle sue mani ed in quelle della Dea.
"Nessuno potrà cancellare queste parole," pensò incoerentemente Ellemir, abbassando lo sguardo come per sottrarsi a quello di Taksya, "anche se nessuno, tranne noi, le ha udite."
Dopo quello che le sembrò un lunghissimo attimo di pausa, Ellemir rialzò lo sguardo, pronta a resistere all'offerta di Taksya. Sentiva che il sacrificio che la donna voleva compiere non era giusto, anche se il pensiero di avere qualcuno vicino a lei, fino all'ultimo, la allettava egoisticamente. Sapeva che quello che stava provando in quel momento era simile al desiderio di compagnia che l'aveva indotta, lunghi anni prima, ad accogliere e mantenere la presenza di Edric Aldaran nella sua Torre.
Stava per dare voce ai suoi dubbi, quando si accorse che Taksya era nuovamente svenuta. Avrebbe dovuto costringerla a mangiare qualcosa, prima di permetterle di fare qualsiasi altra azione, come consegnare la propria vita ad una sconosciuta.
Ellemir si sentiva irritata. Il suo bisogno di scoprire i segreti che la mente dell'Amazzone nascondeva le aveva fatto scordare le più banali cure da prestare ad un ferito in convalescenza. Frugò nella bisaccia che aveva recuperato poco prima ed estrasse quello che supponeva un ferito nelle condizioni di Taksya sarebbe stato in grado di mangiare.
Utilizzando il laran, costrinse Taksya a svegliarsi ed a mangiare. Le condizioni della donna erano talmente deboli che non riusciva neppure ad inghiottire quello che lei le aveva preparato.
«Ho sonno,» gemette Taksya al termine del pasto. «Devo dormire un po', non credo che riuscirei a muovermi,» disse quasi piagnucolando, cercando di rannicchiarsi su se stessa, in una posizione che le permettesse di non sprecare troppo del suo calore corporeo.
Ellemir era però di tutt'altro avviso. Si rendeva conto che la stanchezza e il freddo stavano prendendo il sopravvento sulla volontà della donna. Non poteva permetterle di addormentarsi, la morte l'avrebbe raggiunta non appena la sua temperatura avesse cominciato a scendere, per adattarsi al gelo esterno.
"Una morte migliore che essere fatte a pezzi da un uccello spettro," pensò disperata. Se Taksya non fosse riuscita a stare sveglia non sarebbero riuscite ad allontanarsi dal Passo e quella sarebbe stata la loro sorte.
La linea degli alberi dell'altopiano risaltava chiaramente contro il biancore della neve, una decina di chilometri più a valle. Una distanza insuperabile nelle loro condizioni, ma l'unica salvezza in cui potevano sperare.
Ellemir tentò inutilmente di scuotere Taksya dal torpore in cui era caduta. La barriera mentale che circondava il centro del laran di Taksya sembrava aver accresciuto la sua potenza, circondando anche quelle zone che lei avrebbe potuto stimolare utilizzando il proprio donas. Non poteva svegliarla a suon di ceffoni, né costringere la sua mente a resistere al sonno stimolandola con ordini telepatici. Il cielo stava cominciando a scurirsi e loro erano bloccate lì, apparentemente senza via di scampo.
Ellemir aveva perso completamente ogni speranza quando, da uno dei crepacci che costellavano la parete della Montagna dell'Uomo Morto, si levò il grido del primo uccello spettro. C'era ancora troppa luce per permettere all'animale di uscire per procurarsi il cibo, ma il forte odore del sangue doveva essere giunto fino a lui, spingendolo a muoversi prima del tempo.
Il grido agghiacciante del banshee fu lo stimolo che mancava per indurre Taksya a svegliarsi. L'urlo dell'animale penetrò attraverso i suoi sensi intorpiditi, lacerando ogni brandello del pesante mantello di torpore che aveva avvolto il suo essere. Aprì gli occhi, sveglia come mai lo era stata in quei giorni di continua tensione.
«Dobbiamo andarcene di qui,» disse con calma innaturale, «seppellire i cadaveri ed allontanarci il prima possibile dal passo.»
Ellemir la sorresse mentre tentava di mettersi in piedi. Le gambe non avevano assolutamente l'intenzione di reggerla, mentre la testa e lo stomaco tentavano di ribaltare le loro posizioni.
«Non possiamo seppellire i cadaveri,» le disse, nel modo più gentile possibile.
«Grisella,» le lacrime erano salite agli occhi dell'Amazzone, che tentò di mantenere ferma la voce. «Non posso lasciarla qui, permettere che diventi cibo per gli uccelli spettro.»
Ellemir scosse tristemente la testa. «Non credo che lei sarebbe d'accordo.»
«Non posso abbandonarla in questo modo.»
«La terra è gelata, impiegheremo ore per scavare anche una piccola buca, sempre che ne fossimo in grado. Tu sei ferita ed io ho speso parte della mia energia cercando di curarti il braccio. Non riusciremmo neppure a scavare la terra necessaria per coprire i resti del nostro pasto.»
Taksya abbassò la testa in segno di resa, quello che Ellemir le stava dicendo era vero. Avrebbero rischiato di trovarsi ancora lì, quando il banshee che avevano sentito gridare avrebbe trovato il coraggio di affrontare la luce del sole morente per andare a procurarsi il cibo.
«Grisella non vorrebbe che tu rischiassi la vita per occuparti del suo corpo,» continuò Ellemir. «Se potesse ti inciterebbe a scappare, il più rapidamente possibile.»
Taksya annuì in silenzio. Avrebbero abbandonato quel posto di morte il prima possibile. Ma doveva comunque rendere un omaggio all'amica morta. Mentre Ellemir raccoglieva le poche cose che aveva trovato nella sacca, guardandosi in giro per individuare qualche altra parte del carico da portare con loro, Taksya si avvicinò in silenzio al corpo di Grisella.
Recuperò il suo coltello, ancora a terra dove il bandito che l'aveva disarmata l'aveva lasciato cadere, e lo posò accanto alla mano della donna. Con solennità prese quello di Grisella, ripulendolo dal sangue che lo imbrattava, si inginocchiò per qualche breve istante accanto al corpo, assicurando l'anima dell'amica alla clemenza di Avarra, ed infilò l'arma nella propria cintura.
Terminato il breve rituale, Taksya tornò verso Ellemir, cercando come lei qualche resto del loro equipaggiamento da portarsi dietro nella fuga. Riuscì a ritrovare la propria sacca, ancora legata sul dorso di uno dei cervine, travolto dalla furia dei banditi in fuga, ma non sembrava essere rimasto null'altro del resto del carico o degli animali.
Fermandosi un istante per riprendere fiato, Taksya notò distrattamente il cadavere del capo dei banditi. Senza accorgersene si portò una mano al petto, stringendo i lembi della tunica che l'uomo aveva brutalmente strappato. Ellemir doveva aver sistemato i suoi abiti dopo aver curato la sua ferita, ma il tentativo di violenza arrecatale da quell'uomo la faceva ancora tremare di rabbia e di impotenza.
Era morto, questo era certo e poteva comunque bastare, ma c'era però qualcosa che non andava nello stato di quel corpo. Qualcosa di strano ma di terribilmente familiare.
Il grido del banshee, più vicino del precedente, la distolse dal pensiero, costringendola a raggiungere Ellemir ed a prendere la via che le avrebbe condotte fino alla copertura offerta dagli alberi dell'altopiano e ad una temporanea salvezza.







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